domenica 2 gennaio 2022

QUE VIVA MEXICO


Sotto la canicola di mezzogiorno tutto si stempera, rallenta, perde consistenza. Il centro cittadino è ingoiato da una risacca di silenzio e da una feroce umidità che conferisce una tranquillità vagamente sottomarina. Tutto sembra scivolare placidamente nel dormiveglia. Nella casa al civico 20, quartiere Santa Ursula, a Città del Messico, il soggiorno è buio, ci sono mobili coperti con le lenzuola e persiane chiuse. Una lama di luce pulviscolare filtra dall’unico infisso semiaperto che si affaccia sulla base imponente dell’Azteca. “En Venta” c’è scritto fuori su un cartello legato con dello spago da pacchi e appeso a uno dei batacchi del portoncino d’ingresso. La casa è in vendita, ma la casa né ha viste di cose, di gente, ne ha sentiti di discorsi: “Il Messico non ha mai vinto i Mondiali perché nelle due occasioni in cui ha ospitato la Coppa è sempre dovuto andare a giocarsi i quarti di finale lontano da qui. Nel 1970 a Toluca contro l’Italia e nel 1986 a Monterrey contro la Germania.” Ignacio è seduto, affondato su una poltrona avvolta da un nylon, ha la faccia stanca, i capelli ricci e neri in disordine, si gratta la barba indurita, guarda il soffitto incolore, poi con gli occhi scuri, da gringo, leggermente incavati, osserva l’immobilità delle cose intorno a lui, solo le pale del vecchio ventilatore sembrano tagliare il silenzio in finissimi cerchi fatti da un ronzio lontano, farneticante. Ignacio inforca gli occhiali, fa riemergere da una delle scatole di cartone del trasloco il suo giradischi, alza il coperchio, posiziona il 45 giri sul piatto, solleva il braccetto quanto basta, avvia il meccanismo, appoggia la testina sul solco del disco. Lo stilo si adagia delicatamente sul vinile e un istante dopo nella stanza inizia a volteggiare ovunque la voce melodica di Jorge Negrete, El Charro Cantor. “Papà ma tu non eri di quelli che credevano nella Rivoluzione, uno scacciapreti, e adesso mi vieni a dire che il Messico non ha vinto i Mondiali per via dell'indignazione di un immagine?” A chi o cosa credere?. A Pancho Villa o alla Vergine di Guadalupe? Oppure a entrambe le cose, come d’altra parte facevano e fanno ancora la maggioranza dei messicani. Ignacio guardò il pupazzo Piqui. Glielo aveva regalato proprio suo padre durante gli ultimi campionati del Mondo giocati qua. Piqui era la mascotte. Lo guarda nella penombra dell’appartamento vuoto, crepuscolare, pronto a essere venduto al nuovo proprietario, lo guarda sulle note della “La Cancion de los Vaqueros” … Por la vereda del llano, Va cantando el caporal, Arrea ganado orejano, Para el campo en el corral... Sulla copertina del disco c’è Negrete, sorridente, col baffetto da sparviero che segue la linea del pizzo sotto un sombrero a motivi floreali. Piqui sembra vivo, più vivo di Ignacio, sembra perfino vanitoso, pare occhieggiare con la stessa virile comprensione che avrebbe avuto Emiliano Zapata di fronte a un uomo senza scorza troppo impegnato a far riaffiorare i suoi ricordi e le sue illusioni di ragazzo. Il manifesto del Mondiale gli piaceva, fu firmato dalla grande fotografa americana Annie Leibovitz, un omaggio al mondo delle civiltà precolombiane e alla loro passione per il gioco. L’immagine raffigura gli Atlantes de Tula, figure antropomorfe, allungate come colonne, che furono edificate nel corso della civiltà tolteca. A terra si vede un pallone. C’è l’ombra allungata e stilizzata di un indigeno, inquietante e meravigliosa, che si proietta sul monumento e pare nell’atto di calciare la sfera. Manuel è ricoperto di tatuaggi, ricordo del fratello Facundo, aspirante artista che su di lui si decise a far pratica. Ignacio chiuse appena le palpebre, sprofondò ancora di più nella poltrona e si accese una Hamilton senza filtro, sul collo un cerchio di serpenti. Nella simbologia e cultura di molti popoli significano la nascita, l’esistenza e la morte, in un infinito rincorrersi. Sulla spalla il volto a colori di Ernesto Guevara. Rivede una mano più grande della sua, callosa, che lo tiene stretto nel formicaio bollente di centomila anime avvolte nel “tricolor”, quella stessa mano che viceversa sarà lui a tenere nelle ultime ore di un padre stroncato da uno di quei mali che colpiscono senza avvisare in un anonimo martedì di aprile. Rivede suo fratello, le foto che gli mandava dagli Stati Uniti dopo che riuscì in maniera rocambolesca a passare il confine texano, evitando i bastoni e schivando le pallottole di quei bastardi con il cappello bianco da cow boy. Adesso si è sistemato, vive a Dallas, dice di stare bene, dice che lo aspetta, ma Ignacio non lascerà mai il suo Messico, la faccia triste dell'America.., e sua madre? no, sua madre non riesce a rivederla nel film della sua testa, solo la osserva in tralice in una fotografia in bianco e nero, amorevolmente piegata in quattro, la tiene in tasca praticamente da sempre, la foto si sta rovinando, cominciano a sfumare i contorni, a crepare i bordi, poco importa, gli piace così, lei morì quando lui aveva solo cinque anni, e la fotografia fu scattata sulla costa del golfo, a Veracruz, il corpo esile, i capelli lunghi corvini mossi dal vento, così come l’abito leggero, sfumato di azzurro, in tinta con quel il mare enorme, infinito e ruggente alle sue spalle. Ignacio rivede quel goal incredibile di Manuel Negrete, una sforbiciata al volo che chiuse il match con la Bulgaria valido per gli ottavi di finale e lanciò la nazionale di Bora Milutinović, allenatore sotto ogni cielo, nei quarti del torneo. Si, ma lontano dall’Azteca, a Monterrey, dove avrebbe trovato la Germania e lui e suo padre non ci sarebbero stati, avrebbero visto la partita insieme in TV. Ignacio era fiducioso. La prima partita del Mondiale si era risolta in un’affermazione, forse inaspettata, contro il Belgio. Quirarte portò in vantaggio il Messico, di testa, e il pubblico esplose. Su calcio d’angolo, ancora di testa, Sanchez raddoppierà e la festa dei tifosi diventò delirio. Il Belgio accorciò sfruttando un’uscita avventata del portiere sempre nel corso della prima frazione, ma il risultato non muterà sino al termine. Col Paraguay sarà un incontro crudo, zeppo di falli, se ne conteranno addirittura settantasette, pieno di interruzioni e perdite di tempo, per cui non molto gradevole. Il Messico passò in vantaggio, si vide negare un rigore e nella ripresa venne fuori il Paraguay, che pareggiò a cinque dalla fine. A tempo scaduto, il rigore il Messico se lo prese ma Hugo Sanchez si vedrà respingere il tiro dal portiere paraguayano Fernandez. La fase a gironi fu oltrepassata dopo la vittoria di misura sull’Iraq, nell’ultima partita del girone. Nonostante quell’errore dal dischetto Hugo Sanchez indossava la divisa verde del capo popolo, il nuovo eroe da "Que Viva Mexico", con quella faccia simpatica da indio, il sorriso gentile e timido, che si faceva davvero fatica a immaginarlo nelle vesti di bomber implacabile, eppure saltava gli avversari alla pari di birilli, e quel doppio passo, l’elastico e la rovesciata, pane quotidiano del suo repertorio da funambolo. Forse un omaggio alla sorella, ginnasta di alto livello. 120 minuti di gioco non bastano a decretare un vincitore. Si deve ricorrere ai tiri dal dischetto. Il primo a tirare è Klaus Allofs che spiazza Pablo Larios vestito di giallo, l’aquila il serpente e il cactus sul cuore, in tumulto. Lo stesso fa Negrete, che spiazza Schumacher. Ignacio e suo padre Alvaro non si dicono una parola, nemmeno si scambiano uno sguardo, incollati, ammutoliti, impietriti da quello schermo da giudizio universale. Il ritratto della vergine di Guadalupe, accanto a una confezione di "Bizcochitos". Tocca al biondissimo Brehme, il cui tiro centrale non dà scampo al portiere messicano. Va sul dischetto Fernando Quirarte, ma Toni Schumacher para. Matthaus sigla il 3-1 mentre Raul Servin si fa bloccare il tiro dal portiere tedesco. Pierre Littbarski chiude il conto, portando il punteggio definitivo sul 4-1. Il Messico ha perso ancora, come nel ’70, una maledizione, un paese intero si affloscia per un ennesima siesta. Bussano alla porta, la casa è in vendita, già. Ignacio sbircia dalle fessure della persiana, c’è un signore di IImezza età, ben vestito, con qualche “peso” lo convincerà a vendere, l’Azteca di fronte, è una sfinge, un muro di ricordi nell'enigma della sua vita.

 

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