Sotto la canicola di
mezzogiorno tutto si stempera, rallenta, perde consistenza. Il centro cittadino
è ingoiato da una risacca di silenzio e da una feroce umidità che conferisce una
tranquillità vagamente sottomarina. Tutto sembra scivolare placidamente nel
dormiveglia. Nella casa al civico 20, quartiere Santa Ursula, a Città del
Messico, il soggiorno è buio, ci sono mobili coperti con le lenzuola e persiane
chiuse. Una lama di luce pulviscolare filtra dall’unico infisso semiaperto che
si affaccia sulla base imponente dell’Azteca. “En Venta” c’è scritto fuori su
un cartello legato con dello spago da pacchi e appeso a uno dei batacchi del
portoncino d’ingresso. La casa è in vendita, ma la casa né ha viste di cose, di
gente, ne ha sentiti di discorsi: “Il
Messico non ha mai vinto i Mondiali perché nelle due occasioni in cui ha
ospitato la Coppa è sempre dovuto andare a giocarsi i quarti di finale lontano
da qui. Nel 1970 a Toluca contro l’Italia e nel 1986 a Monterrey contro la
Germania.” Ignacio è seduto, affondato su una poltrona avvolta da un nylon,
ha la faccia stanca, i capelli ricci e neri in disordine, si gratta la barba indurita, guarda il
soffitto incolore, poi con gli occhi scuri, da gringo, leggermente incavati,
osserva l’immobilità delle cose intorno a lui, solo le pale del vecchio
ventilatore sembrano tagliare il silenzio in finissimi cerchi fatti da un
ronzio lontano, farneticante. Ignacio inforca gli occhiali, fa riemergere da una delle
scatole di cartone del trasloco il suo giradischi, alza il coperchio, posiziona
il 45 giri sul piatto, solleva il braccetto quanto basta, avvia il meccanismo, appoggia
la testina sul solco del disco. Lo stilo si adagia delicatamente sul vinile e
un istante dopo nella stanza inizia a volteggiare ovunque la voce melodica di
Jorge Negrete, El Charro Cantor. “Papà ma
tu non eri di quelli che credevano nella Rivoluzione, uno scacciapreti, e
adesso mi vieni a dire che il Messico non ha vinto i Mondiali per via dell'indignazione di un immagine?” A chi o cosa credere?. A Pancho Villa o
alla Vergine di Guadalupe? Oppure a entrambe le cose, come d’altra parte
facevano e fanno ancora la maggioranza dei messicani. Ignacio guardò il pupazzo
Piqui. Glielo aveva regalato proprio suo padre durante gli ultimi campionati
del Mondo giocati qua. Piqui era la mascotte. Lo guarda nella penombra
dell’appartamento vuoto, crepuscolare, pronto a essere venduto al nuovo
proprietario, lo guarda sulle note della “La
Cancion de los Vaqueros” … Por la vereda del llano, Va cantando el caporal,
Arrea ganado orejano, Para el campo en el corral... Sulla copertina del
disco c’è Negrete, sorridente, col baffetto da sparviero che segue la linea del
pizzo sotto un sombrero a motivi floreali. Piqui sembra vivo, più vivo di Ignacio,
sembra perfino vanitoso, pare occhieggiare con la stessa virile comprensione
che avrebbe avuto Emiliano Zapata di fronte a un uomo senza scorza troppo impegnato
a far riaffiorare i suoi ricordi e le sue illusioni di ragazzo. Il manifesto
del Mondiale gli piaceva, fu firmato dalla grande fotografa americana Annie
Leibovitz, un omaggio al mondo delle civiltà precolombiane e alla loro passione
per il gioco. L’immagine raffigura gli Atlantes de Tula, figure antropomorfe,
allungate come colonne, che furono edificate nel corso della civiltà tolteca. A
terra si vede un pallone. C’è l’ombra allungata e stilizzata di un indigeno,
inquietante e meravigliosa, che si proietta sul monumento e pare nell’atto di
calciare la sfera. Manuel è ricoperto di tatuaggi, ricordo del fratello Facundo,
aspirante artista che su di lui si decise a far pratica. Ignacio chiuse appena le palpebre,
sprofondò ancora di più nella poltrona e si accese una Hamilton senza filtro, sul
collo un cerchio di serpenti. Nella simbologia e cultura di molti popoli significano
la nascita, l’esistenza e la morte, in un infinito rincorrersi. Sulla spalla il
volto a colori di Ernesto Guevara. Rivede una mano più grande della sua, callosa, che lo
tiene stretto nel formicaio bollente di centomila anime avvolte nel “tricolor”, quella stessa mano che
viceversa sarà lui a tenere nelle ultime ore di un padre stroncato da uno di
quei mali che colpiscono senza avvisare in un anonimo martedì di aprile.
Rivede suo fratello, le foto che gli mandava dagli Stati Uniti dopo che riuscì in
maniera rocambolesca a passare il confine texano, evitando i bastoni e
schivando le pallottole di quei bastardi con il cappello bianco da cow boy. Adesso si
è sistemato, vive a Dallas, dice di stare bene, dice che lo aspetta, ma Ignacio
non lascerà mai il suo Messico, la faccia triste dell'America.., e sua madre? no, sua madre non riesce a rivederla nel
film della sua testa, solo la osserva in tralice in una fotografia in bianco e nero, amorevolmente piegata in quattro, la tiene in tasca praticamente da sempre, la foto si sta rovinando, cominciano
a sfumare i contorni, a crepare i bordi, poco importa, gli piace
così, lei morì quando lui aveva solo cinque anni, e la fotografia fu
scattata sulla costa del golfo, a Veracruz, il corpo esile, i capelli lunghi corvini mossi dal vento, così
come l’abito leggero, sfumato di azzurro, in tinta con quel il mare enorme,
infinito e ruggente alle sue spalle. Ignacio rivede quel goal incredibile di Manuel Negrete, una
sforbiciata al volo che chiuse il match con la Bulgaria valido per gli ottavi
di finale e lanciò la nazionale di Bora Milutinović, allenatore sotto ogni cielo,
nei quarti del torneo. Si, ma lontano dall’Azteca, a Monterrey, dove avrebbe
trovato la Germania e lui e suo padre non ci sarebbero stati, avrebbero visto
la partita insieme in TV. Ignacio era fiducioso. La prima partita del Mondiale
si era risolta in un’affermazione, forse inaspettata, contro il Belgio.
Quirarte portò in vantaggio il Messico, di testa, e il pubblico esplose. Su
calcio d’angolo, ancora di testa, Sanchez raddoppierà e la festa dei tifosi
diventò delirio. Il Belgio accorciò sfruttando un’uscita avventata del portiere
sempre nel corso della prima frazione, ma il risultato non muterà sino
al termine. Col Paraguay sarà un incontro crudo, zeppo di falli, se ne conteranno addirittura
settantasette, pieno di interruzioni e perdite di tempo, per cui non molto
gradevole. Il Messico passò in vantaggio, si vide negare un rigore e nella
ripresa venne fuori il Paraguay, che pareggiò a cinque dalla fine. A tempo
scaduto, il rigore il Messico se lo prese ma Hugo Sanchez si vedrà respingere
il tiro dal portiere paraguayano Fernandez. La fase a gironi fu oltrepassata
dopo la vittoria di misura sull’Iraq, nell’ultima partita del girone. Nonostante
quell’errore dal dischetto Hugo Sanchez indossava la divisa verde del capo
popolo, il nuovo eroe da "Que Viva Mexico", con quella faccia simpatica da indio,
il sorriso gentile e timido, che si faceva davvero fatica a immaginarlo nelle
vesti di bomber implacabile, eppure saltava gli avversari alla
pari di birilli, e quel doppio passo, l’elastico e la rovesciata, pane
quotidiano del suo repertorio da funambolo. Forse un omaggio alla sorella,
ginnasta di alto livello. 120′ minuti di gioco non
bastano a decretare un vincitore. Si deve ricorrere ai tiri dal dischetto. Il
primo a tirare è Klaus Allofs che spiazza Pablo Larios vestito di giallo, l’aquila
il serpente e il cactus sul cuore, in tumulto. Lo stesso fa Negrete, che
spiazza Schumacher. Ignacio e suo padre Alvaro non si dicono una parola,
nemmeno si scambiano uno sguardo, incollati, ammutoliti, impietriti da quello
schermo da giudizio universale. Il ritratto della vergine di Guadalupe, accanto
a una confezione di "Bizcochitos". Tocca al biondissimo Brehme, il cui tiro
centrale non dà scampo al portiere messicano. Va sul dischetto Fernando Quirarte,
ma Toni Schumacher para. Matthaus sigla il 3-1 mentre Raul Servin si fa
bloccare il tiro dal portiere tedesco. Pierre Littbarski chiude il conto,
portando il punteggio definitivo sul 4-1. Il Messico ha perso ancora, come nel
’70, una maledizione, un paese intero si affloscia per un ennesima siesta. Bussano
alla porta, la casa è in vendita, già. Ignacio sbircia dalle fessure della persiana,
c’è un signore di IImezza età, ben vestito, con qualche “peso” lo convincerà a vendere,
l’Azteca di fronte, è una sfinge, un muro di ricordi nell'enigma della sua vita.
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