mercoledì 22 marzo 2023

"LANE-ROSSI"


C’è un punto, da qualche parte, in cui tutto finalmente si incontra, i suoni, gli odori, i volti, i sentimenti, le persone, e diventa possibile conoscere le cose nel loro insieme. I ricordi dei bambini selezionano, sono emotivi, non si muovono, restano fissati lì, incastrati nella memoria, una volta per sempre alla pari di una “Madeline” di Marcel Proust, al contrario dei ricordi degli adulti, che cambiano, escludono, dimenticano, tradiscono. Così, ritirando fuori dei vecchi “doppioni” Panini, preservati e consacrati, ho ancora oggi la sensazione dolce di un inizio di primavera: crescevo, crescevamo, ne avevamo per la prima volta la consapevolezza, giocavamo a pallone, imparavamo ad allacciarci le scarpe da soli, anche se a modo nostro, e io non avrei davvero mai capito esattamente come si fa. Risuonò il telefono, con quel trillo inconfondibile degli apparecchi SIP, quelli dal quadrante dai numeri a rotella di colore grigio, che in genere stavano adagiati sul tavolino dell’ingresso sopra il centrino della nonna, ogni cosa negli anni settanta stava sopra un centrino di lana perché così non si rigavano i mobili e quando arrivavano i parenti la casa sembrava più in ordine e dopo mica avevano da spettegolare rientrando in macchina. Oh, già il telefono mi ero dimenticato, scusate. All’altro capo echeggiò il vocione di mio zio Ermanno, abitava in uno di quei palazzi dall’intonaco giallognolo in Via San Gallo a Firenze, i capelli radi, tirati all’indietro, ex bersagliere durante la guerra, buona forchetta e discreto giocatore ai “Quadrigliati” che oggi i ragazzi non sanno più nemmeno di cosa si tratti ma non gliene puoi fare una colpa. Sarà stato il 15 o il 16 marzo del 1978 e sotto le strobo in discoteca si impazziva per “Dancing Queen” degli ABBA, ma in Italia erano soprattutto i giorni tremendi e confusi del rapimento Moro, il paese appariva come un gigantesco stivale zeppo di lampeggianti dei Carabinieri e della Polizia, ovunque posti di blocco, ovunque pattuglie, dalle grandi città ai borghi più sperduti. Insomma, tirava una brutta aria, al punto che mio zio ci disse che non si sapeva se la partita di domenica si sarebbe giocata oppure no per motivi di ordine pubblico, si temeva qualcosa, cosa di preciso non lo sapeva nessuno ma evidentemente per un tempo indefinito la nazione ebbe un cedimento. La Fiorentina era ospite della squadra dell’anno, no, non la Juventus (in ogni caso in testa alla classifica) nemmeno dal Milan, dal Torino, o dall’Inter, no, niente di tutto questo: la squadra dell’anno, la sorpresa della stagione, si chiamava Lanerossi Vicenza. Ora per me, cosa vuoi, a 6 anni sentire alla radio Enrico Ameri esclamare "attenzione, il Lanerossi Vicenza è passato in vantaggio", risultava normale, pensavo si dovesse chiamare così e basta, non c’era nulla di strano, di anomalo, anzi per certi aspetti appariva quasi un bel nome, fluido, scorrevole, un nome comune, si dai, un nome talmente comune tipo che so: Paolo Rossi. E poi dalle rare immagini che passavano alla televisione lo stadio del Lanerossi (solo più tardi appresi che quella R annodata sulla maglia si riferiva a un industria tessile di Schio, un cotonificio) si presentava stordente, imperlato di facce, con tutto quel pubblico a ridosso del campo, con i pali di sostegno della tribuna principale belli in vista "a otturare la vista", ma l’estetica batte 4-0 ogni comodità; uno stadio quindi albionico, all’inglese, forse il più inglese di tutt’Italia, quel “Romeo Menti”, dove il 22 gennaio di quell’anno arrivò la Juventus e i vicentini imballarono l’impianto con l’affluenza più alta di sempre ossia 31023 persone, alle quali andrebbero aggiunti anche gli scalatori dei pilastri dell’illuminazione, la gente assiepata sul tetto dell’Hotel Continental e i “recuperati” dai distinti. Una folla, un fortino, un quadrilatero fuso su un rettangolo e che il santino  della Madonna di Monte Berico, nascosta nelle tasche interne dei giacconi insieme alla "mignon" di Cognac interceda per noi, in fondo diceva Mastro Eckhart un conto è Dio un conto è la Deità. Dal ritiro di Rovereto dell’anno precedente (attenzione ritiro per preparare la B dopo vent’anni continuativi nella massima serie) erano passati circa sedici mesi e il Vicenza girava fra le mani di Giovan Battista Fabbri, mani imbevute nei canali di Amsterdam, che avevano modellato un Vicenza ricco di idee, qualcuna persino ardita. Lui, GB, ritornò in panchina fra alterne vicende, e una volta riconquistata la A si trovò seriamente a lottare per lo scudetto. Sottolineo seriamente, poiché poteva apparire una fesseria detta a fine pranzo in un osteria fuori porta a cui nessuno crede. Con la Juve finirà 0-0, invece il Vicenza il 19 marzo 1978 alla fine giocherà contro la Fiorentina nonostante tutto, e prese i due punti grazie a una rete di Rossi, non ancora Pablito, non ancora l’abatino di platino descritto da Gianni Brera, un Rossi dal dubbio amletico, smagrito moretto di Prato arrivato dalla primavera della Juventus, rapido e un pochino malinconico. “Lane-Rossi”, suffisso curioso, se vogliamo simpatico gioco del destino. La figurina Panini è la 144 (potete controllare), album 1977/78, il primo in assoluto che ebbi la gioia di completare. Ci è ritratta una formazione di quel Vicenza che dicono bazzicava fra il Bar di Viale Margherita e la Pasticceria Rossana in Via Egidio di Velo. Onesti mestieranti raggruppati dal presidente Giussy Farina, personaggio amato e odiato, un pò perché si diceva di natali più veronesi che vicentini, sicuramente uomo di sostanza dal nome di battesimo Giuseppe Antonio, ma siccome era un nome troppo lungo lo chiamavano Giussano, donde il diminutivo Giussy. Che sia vezzeggiativo o meno, sul tavolo del mercato calcistico nel maggio del ’78 si giocò la roulette delle buste per la comproprietà di Rossi. Farina credette di avere le carte giuste da giocare…”Due miliardi e sei. Sulla busta devi scrivere: due miliardi e sei” – gli spifferò una fonte anonima – “Giussy, fidati, la Juve mette due miliardi e mezzo. Tu metti due e sei e Paolo è tuo”. Giussy Farina non dormì, ci pensò, si fidò. E la mattina dopo sulla busta in ceralacca della Lega scrisse: 2 miliardi, 612 milioni e 510 mila lire. Solo dopo – quando aprirono la busta della Juve – si scoprì che i bianconeri si erano fermati a 875 milioni. Ne nacque uno scandalo con le dimissioni del presidente federale Carraro ma ormai i giochi erano fatti. Mi resta una vaga bellezza di quel Lanerossi Vicenza, vascello pirata capitanato da Renato Faloppa, ordinato dal libero Giorgio Carrera, uno già con la maglia fuori dai pantaloncini ante litteram, dal portiere senza guanti Ernesto Galli, dal roccioso Giuseppe Lelj, da Roberto Filippi detto “Furia” in associazione con il cavallo della serie televisiva che stava spopolando sulla RAI, e ancora Franco Cerilli, metronomo ceduto dall’Inter perché il biondino a Milano doveva essere l’erede di Mario Corso e invece a San Siro non ci credettero abbastanza lasciandolo partire. Ovvio, Paolino Rossi già detto, pungolo di un Menti che pareva un piccolo Highbury. Qualcuno chiamò quella squadra “Real” Vicenza, a me piace pensarlo più come una reazione al conformismo, un effrazione, un piede di porco contro i soliti noti, l’inflazione capovolta, la 127 in mezzo alle berline. “Entrate in campo e suonate” diceva negli spogliatoi ai suoi ragazzi il buon GB Fabbri. Quanto maledetto tempo è passato, anche la figurina appare ormai decisamente invecchiata. Peccato non abbiano vinto quello scudetto, o forse meglio così, chissà se certi ricordi avrebbero funzionato allo stesso modo se imbellettati da lustrini sul petto.

mercoledì 15 marzo 2023

A LIGHT IN THE NORTH



Dal molo di Aberdeen quella piattaforma al largo del mare del nord potevi vederla solo nelle nitide giornate spazzate dal vento e incorniciate dal volo oracolare dei gabbiani, per il resto dell’anno quel puntino scuro, quasi informe, laggiù in fondo all’orizzonte sembrava divertirsi a sparire dietro a sipari di nebbia o pioggia battente. Andrew Corbin ventenne lungo, spigoloso e rossiccio, ci lavorava come operaio in apprendistato addetto alla manutenzione. Tutto sommato un buon lavoro, voglio dire meglio della miniera, occorreva semmai adeguarsi in fretta al fatto di restare lontano da casa per delle settimane ma nella sua cabina si era ricavato un alloggio confortevole zeppo di riviste vietate ai minori e anche qualche libro di seconda mano. Soprattutto pensò bene di fornirsi di una radio con la quale poteva sintonizzarsi sulla frequenza 93.1 di BBC Radio Aberdeen, dove la voce di Colin Farquharson lo ragguagliava sulle vicende e sui risultati dei suoi amati "Dons". E allora, la sera dell' 11 maggio 1983, a turno concluso, mentre un diluvio torrenziale tamburellava sul 
vetro dell’oblò, si aggiustò il cuscino dietro la schiena, si aprì una lattina di Tennent’s e alzò la mano destra quanto bastò per virare la manopola delle stazioni sull’emittenza giusta. L’Aberdeen di un frizzante Alex Ferguson stava per giocarsi la finale di Coppa delle Coppe contro il Real Madrid, roba da matti.

 

C’era sentore di sciopero. Le riforme della signora Thatcher erano andate a sbattere duro contro il cofano del proletariato britannico. Si annusavano scontri e altre rivendicazioni, con il sindacato instancabilmente sul piede di guerra. Eppure Mike Gray, orgoglioso “Shetlander” di 46 anni dagli occhi chiari con un volto allungato e un po' spiritato dalla barbetta ispida e brizzolata, quella anomala trasferta a Göteborg non voleva certo perdersela, anzi, evangelicamente non voleva farla perdere a tutti quei tifosi dell’Aberdeen (come lui del resto) che da almeno dieci giorni avevano acquistato il biglietto per salire a bordo del “St. Clair”. Alle 13:30 di lunedì 9 maggio 1983 un totale di 493 fan agghindati alla moda "casuals" e 63 membri dell'equipaggio salparono dal porto di Aberdeen diretti alla città svedese al seguito della squadra. Si trattava di un traghetto omologato al semplice trasporto passeggeri settimanale tra Aberdeen e le isole Shetland settentrionali, ma il Capitano Gray ebbe il permesso dalla P&O Ferries Orkney e Shetland Services di allungare il tragitto.. All'epoca molti lo definirono un azzardo: i "pericolosi" tifosi di calcio, si pensava, non avrebbero mai dovuto viaggiare in massa via mare. Ma la proposta commerciale intrapresa dal direttore generale di P&O Eric Turner ripagò profumatamente in termini di profitto e popolarità. Sarebbe stata una traversata di ingenti incassi, una cifra che la compagnia navale avrebbe guadagnato solo se fosse andata avanti e indietro per le Shetland ogni giorno per due settimane senza sosta. Insomma, la St. Clair, ferryboat da 4.468 tonnellate partì dalla città di granito in un crescendo di clacson sulla banchina e nel frastuono delle sirene della stessa nave, completamente imbandierata di biancorosso. Un viaggio irripetibile, il primo e unico enorme speciale carico galleggiante di tifosi nella storia del football britannico.

 

“Jock, hai qualche consiglio da darmi per la partita?” – “Si, vai a comprare una bottiglia di whisky e regalala al loro allenatore”. Ora, Jock è Jock Stein, ovvio, uno dei totem del calcio scozzese, all’altro capo del telefono invece la voce era quella di Alex Ferguson, il giovane talentuoso manager dell’Aberdeen finito in panchina a Pittodrie dal 1978. E l’allenatore degli altri, del Real Madrid, quello a cui arriverà una bottiglia di Bowmore invecchiato 12 anni, aveva un nome piuttosto pesante: Alfredo Di Stefano. A Ferguson non si chiesero mai grandi cose. E poi con chi poteva realizzarle a guardar bene sotto i tettucci rossi di Pittodrie increspati di salsedine? In porta c'era Jim Leighton uno scampolo biondastro uscito da una rissa da pub privo di incisivi, la stanga Alex McLeish, difensore corrusco e legnoso come i banchi delle sua scuola di Barrhead a Glasgow in cui lo vide Alex McLeod che se lo portò con timide speranze a 16 anni ad indossare la maglia dei "Dons". Spuntavano i baffi da gringo di Willie Miller, capitano senza infamia e senza lode, e magari la frangetta di Peter Weir buon corridore, un ala di talento, magari non come quello di Gordon Strachan ma senza dubbio utile e in fondo assomigliava a Mike Oldfield che stava scalando le classifiche musicali con "Moonlight Shadow". Ecco il merito di Ferguson risiedette innanzitutto nel eliminare il pessimismo presbiteriano che spesso affliggeva le squadre di calcio scozzesi. Già, Ferguson. Lui nacque nell’ultimo giorno disponibile del 1941 a Govan, quartiere problematico della periferia ovest di Glasgow, cresciuto in un mix tra calcio, alcol e politica. “Crescere in un posto così ti indica la via”, ha più volte citato espressamente mister Alex, facendo riferimento a quell’infanzia problematica nelle cosiddette "suburbs". Bocciato alle elementari, all’High School, poca voglia di studiare, ma pronto però a mettersi in gioco, ed è così che ebbe inizio la sua carriera da apprendista, alternata al calcio professionistico e al lavoro in fabbrica col padre. Quando arriva a Pittodrie nella sala dei trofei potevi farci un party dallo spazio disponibile, e lui dato un occhiata evidentemente decise di ribaltare quegli albi d’oro che l’Aberdeen aveva occupato solo nel 1955. La prima stagione è di ambientamento (quarto in classifica a -8 dalla vetta), ma la seconda è già quella della svolta: 1979/80. La stagione è vissuta sottotraccia all’inseguimento del Celtic in costante attesa che la vite giri nel modo giusto. Il momento decisivo arriverà a quattro giornate dalla fine. A Parkhead i Dons dominano 3-1 grazie alle reti di Archibald, McGhee e Strachan. Il teatro dei festeggiamenti invece è Edimburgo, contro l’Hibernian. La classifica finale reciterà: Aberdeen 48, Celtic 47. Nel frattempo arrivano altre soddisfazioni ma dobbiamo correre a Göteborg. Pioggia battente, umidità, terreno al limite, perfetto clima di casa. Dentro andò subito Erick Black al ritorno da un infortunio mentre in panchina si accomoderà Stuart Kennedy dopo una bella botta ricevuta in semifinale contro i belgi del Waterschei. Oh, in ogni caso la battaglia fu nei quarti contro il Bayern, diciamo il vero anticipo della finale. Serviva una partita perfetta, quella che Alex Ferguson chiese ai suoi. È quella che gli scozzesi metteranno davanti agli occhi dei 18.000 giunti lassù non solamente con quel benedetto traghetto ma principalmente con qualcosa come 60 voli charter alzatesi da ogni aeroporto del Regno Unito. L’inizio fu proprio nel segno di Black. Il numero dieci prima colpirà una sontuosa traversa su semirovesciata volante e poi segnerà la rete del vantaggio con un tocco ravvicinato causato un errore banale del terzinaccio barbuto Juan José Jimenez detto Sandokàn. Il pareggio di Juanito su calcio di rigore si dimostrerà solo un fuoco di paglia, vacillante, etereo al pari delle maglie bianche del Real. I "Dons" non concederanno più nulla, dominando il "Madrid" di Juanito, di Santillana e del grugno tedesco di Uli Stilike, con una sicurezza singolare, degna di veterani eppure i novanta minuti non bastarono come non bastò Gordon Strachan, letteralmente imprendibile. Così Mark McGhee corse sulla sinistra quando mancavano sette minuti alla fine dei tempi supplementari, buttando la palla nel mezzo per l’accorrente John Hewitt, il portiere madrileno Agustin non farà in tempo a consultare il manuale delle uscite perfette. Aberdeen 2 Real Madrid 1, l’avevo detto roba da matti.


martedì 14 marzo 2023

THE EIGHT OF ASHTON GATE




Prendere o lasciare, sì, ma non è così semplice, perché in mezzo c’è la storia del Bristol City. Ok, mettiamo la puntina del giradischi sul piatto e in sottofondo ascoltiamo “For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?” dei The Pop Group, la band che più di ogni altra ha tracciato la strada per quel filone sperimentale e un po’ oscuro del “Bristol Sound”. Mark Stewart la voce, John Waddington alla chitarra, Gareth Sager al sassofono, Dan Catsis al basso e Bruce Smith alla batteria. Già Bristol, dove il pirata Long John Silver reclutava marinai sotto l’ombra storta del campanile di Temple Church. Bristol sembra un po’ Amsterdam, un po’ Bombay, persino scorci di Londra, angoli di Genova, qualcosa delle scalinate di Oporto, il calore di Kingston. Una città che si nasconde dietro le anse del canale mentre da est rimonta l’eco delle onde. Gli antichi docks screpolati dal tempo, il nuovo fronte del porto, le case georgiane orgoglio dei mercanti. Gli oltre sessantamila studenti, graffiti. Un crogiolo di razze, di colori, di vicende diverse. Attraverso questa porta l’Inghilterra ha scoperto il mondo e se lo è portato a casa. Perché ci sono sere che a Bristol, lungo le banchine, riecheggiano racconti su isole dimenticate da Dio usciti dalla bocca screpolata dal sale di vecchi lupi di mare che dovevano accendere la fantasia di Louis Stevenson e Daniel Defoe, che in uno studiolo del centro scrisse il suo "Robinson Crusoe". Nel 1982 a Bristol successe l’imprevedibile. Il capitano del City Geoff Merrick fu costretto a rincasare dopo partite e allenamenti scortato dalla polizia. Non solo lui, molti altri suoi compagni sono giornalmente sottoposti a una serie di minacce e la situazione stava obiettivamente sfuggendo di mano.. Facciamo un passo indietro. Nel 1976 i “robins” guidati in panchina da Alan Dicks ottennero la promozione in First Division e la società non badò a spese pur di assicurarsi una squadra che gli consentisse la permanenza nel massimo campionato del calcio inglese conquistando una salvezza tranquilla e vincendo nel 1978 la Anglo-Scottish cup che andò a far compagnia a un “inusuale” coppa del Galles datata 1934. Eppure, dopo quattro anni il sogno si interromperà con una brusca retrocessione. Ma il dramma non finirà lì. Sarà infatti il primo di tre declassamenti consecutivi di categoria che porteranno il Bristol City in quarta serie, ovvero quella a contatto pruriginoso con i dilettanti. La situazione economica si rivelò disperata, soprattutto a causa di contratti decennali fatti firmare con troppa enfasi e poca lucidità. Fatto sta che in panchina arrivò il giovane Roy Hodgson, deciso a far fruttare in patria l’esperienza maturata in Svezia alla guida dell’Halmstads. Non ne avrà modo né tempo. In quei giorni convulsi lo spettro della scomparsa del club agitava le notti negli uffici di Ashton Gate. Hodgson sarà costretto ad andarsene dopo aver battuto in una partita interna il Chester per 1-0. Il giorno seguente arrivò la dichiarazione di fallimento del Bristol City. In fretta e furia verrà costituita una società (la Bcplc), cui sarà concessa la possibilità di ereditare dal vecchio City, giocatori, diritti sportivi e lo stadio Ashton Gate allo scopo di tenere in vita temporaneamente la società sotto altra forma giuridica. A tirare le fila della situazione sono, Deryn Coller, Ken Sage, Les Kew e Ivor Williams che instancabilmente faranno le ore piccole per tentare il salvataggio di un club nato nel 1894 e che si era innamorato del rosso delle divise garibaldine. I quattro concorderanno un prezzo con il curatore per ricomprare lo stadio a un prezzo fissato intorno alle 600000 sterline ma nonostante estemporanee lotterie e la vendita di azioni a benefattori vari, nelle casse societarie ne arrivarono a malapena la metà. Si dice che avrebbero potuto incassare di più, ma quando si sparse la voce di un investitore intenzionato a rilevare la quota per poi abbattere l’impianto e vendere il terreno a una ditta edile decisero di non proseguire capendo l’unica cosa ragionevole, e cioè che per ridare un futuro al Bristol City era necessario che i giocatori più importanti si licenziassero spontaneamente senza la pretesa di un rimborso o di una qualunque sorta di liquidazione. Tuttavia in quarta divisone in quei primi anni ottanta i salari erano bassi, la maggior parte dei calciatori avevano famiglia, figli e mutui insoluti; quel denaro giustamente lo avevano pattuito a suo tempo e ora gli serviva, ed inoltre era chiaramente impensabile collocarli in un’altra squadra a metà stagione alle stesse condizioni economiche. La scadenza, implacabile, si avvicinò. Senza quei maledetti soldi alle 12 in punto del 3 febbraio 1982 il Bristol City avrebbe dato un amarissimo addio al calcio. E a quel punto, quando si delineò netto il confine fra vita e morte sportiva, i tifosi cominciarono nelle forme e nelle maniere più assillanti a chiedere un gesto di amore ai giocatori. I telefoni squilleranno continuamente, le buche delle lettere intasate di richieste di aiuto e comprensione, poi, come detto, si arriverà perfino alle intimidazioni. Tutto però sembrava perduto, finché, a poche ore dall’obbligo finanziario fissato dal tribunale, otto giocatori del Bristol City decideranno di rinunciare ai compensi previsti dai loro contratti salvando di fatto il club. Quando gli otto entrarono nella sala da pranzo della Dolman Exhibition Hall, i 275 ospiti riuniti si alzarono all’unisono offrendo una prolungata standing ovation. Per quel gesto, Peter Aitken, Gerry Sweeney, Julian Marshall, Chris Garland, Jimmy Mann, Geoff Merrick, David Rodgers e Trevor Tainton passeranno alla storia come “gli otto di Ashton Gate”. Per alcuni di loro abbandonare la squadra non fu solo un sacrificio economico ma anche sentimentale come quello di Gerry Sweeney. Gerry giocava lì da undici anni: un autentica leggenda protagonista della promozione del ‘76, che non aveva abbandonato la barca nonostante le tre retrocessioni di fila. Oggi non mancano opuscoli commemorativi e una grande targa all’esterno dello stadio perpetua ai posteri il loro sacrificio.

venerdì 10 marzo 2023

LAUDATO GUBBIO


Si sale verso Gubbio con l’animo del pellegrino, fra l’argento degli ulivi, quello profondo dei lecci e il verde opaco dei cipressi. E’ possibile cogliere l’Umbria spirituale e silenziosa nelle sue abbazie e nei conventi, nel Cantico delle Creature di San Francesco come nelle Laudi di Jacopone da Todi, accanto a quella gioiosa, vitale e concreta che si avverte nei vicoli, nelle botteghe, nelle feste. Qui la teologia ha trovato radici, come se la ragione fosse impotente di fronte al mistero. Non fu un caso che nel 1910 a promuovere il calcio da queste parti toccò a Don Bosone Rossi, sacerdote eugubino molto attivo tra i giovani, che al suo ritorno da Roma aveva portato con se un pallone facendo scoccare il fatale incontro tra il gioco ed i Ceri. Al San Biagio nel 1987 la “Domenica Italiana” di Toto Cutugno esondava dagli altoparlanti nel piccolo catino dedicato al calcio, un sorta di covo rupestre intraversato da tribunette all’inglese, di quelle con il bordo del tettuccio griffato dalle solite ragguardevoli ditte locali, tettucci grondanti pioggia con i pali di sostegno, pessimi per la visibilità, ma cosa vuoi ci si accontentava, anzi in fondo erano tempi buoni e in Italia l’economia girava, e ti potevi permettere un automobile e una vacanza al mare evitando di ricorrere a prestiti da usura. All’epoca l’Interregionale era un ibrido di vecchi marpioni scesi a prendere gli ultimi spiccioli di carriera, giovani esuberanti con qualche ambizione di salire in serie più importanti e cariatidi di categoria che ormai si erano praticamente affezionate a quel calcio di provincia tutto polmoni, fango, e ogni tanto pure qualche tocco di classe che il pubblico si godeva alla svelta tipo fenomeno da baraccone alla pari di quei circhi che ogni tanto passavano dai paesi e tutti la sera a vedere i leoni e il mangiafuoco arabo. Calciatori operai al giorno e forse un po' matti sul campo, senza nemmeno aver fatto i tre giri di rito intorno alla fontana di Largo del Bargello. E allora se dalle radioline arrivano le reti di Platini e di Maradona e dalle finestre delle case profumo di Strangozzi e Friccò, allo stadio ci si animava per quella bella maglia rossoblù a strisce verticali con sul cuore i cinque colli simbolo della città, il pallone a bande, e la stellina d'argento al merito sportivo conferita alla società. Una divisa indossata in quella storica stagione da Candido De Felice, Sabatino Cipolletti, Moreno Morbiducci, Lamberto Magrini e il portiere ex Samp e Lazio, Massimo Cacciatori, oltre naturalmente a tutta una serie di altri nomi da contorno. Il ds Mancini e il presidente Vispi, costruirono una squadra per tentare di conquistare per la prima volta la serie C facendo accomodare in panchina Giampaolo Landi, un romagnolo tutto d’un pezzo, educato, professore di matematica, di quelli che ti davano una pacca una spalla se avevi fatto la cosa giusta aggiungendoci: “Bravo burdél”. La classifica del girone F disse all’ultima giornata: Gubbio 46, Poggibonsi 46. Occorreva uno spareggio, la federazione decise per il Renato Curi di Perugia e vennero staccati oltre 23000 biglietti, una roba da far invidia a tornei più patinati. Fu una giornata fosca, umida, i tempi regolamentari si chiusero sullo 0-0, Massimo Cacciatori chiuse ogni varco con esperienza, soprattutto al novantesimo, quando l’attaccante Andrea Pistella del Poggibonsi sembrò avere la palla giusta per i toscani. Là davanti i rossoblù risultarono troppo sterili, finché, al 113º minuto dell’aggiuntivo, entrò Rosario Zoppis che con un guizzo su assist di "Bobo" Camborata, sotto la curva nord assiepata di tifosi eugubini, segnerà la rete decisiva che porterà il Gubbio finalmente in serie C.


LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...