venerdì 22 agosto 2025

DI ROSA E DI NERO

 


Colpa del Marsala e del Rosolio. Si, però dove c'è di mezzo un pallone da calcio di solito c'è di mezzo anche un inglese, un commerciante in liquori. Si chiamava Joseph Whitaker, ma cosa volete a Palermo nel vociare dei mercati lo chiamavano Giosuè, e sarà lui, smilzo prodotto di un sobborgo di Leeds con i basettoni e i baffi a manubrio a gettare dalla nave ormeggiata nel porticciolo della Cala una sfera di cuoio per dare il via a quello che diventerà il Palermo Football Club, cucendo maglie con stoffa rosanero perché il rosolio e il marsala da bere rispettivamente dopo una vittoria o dopo una sconfitta rappresentavano metafora dolce o amara dei risultati alterni del gioco. Fu quella Palermo, la Palermo dei carrettieri e dei braccianti d’arance, la Palermo barocca profumata di mele e gelsomini, la Palermo dei fichi d’india e dello zolfo, la Palermo delle zampogne e delle barche ferme in mare, in bocca ai monti, all’Acquasanta, ad aspettare pazientemente la sua culla di passione sportiva, passando dal fango del “Varvaro” all’inadeguato “Ranchibile”, fino alla sequela di nomi appuntati sulla fronte della tribuna dello stadio “Littorio” costruito all’interno del parco della Favorita, un pò alla stregua di San Siro, con definitiva dedica a quell’autentico ultimo “gattopardo”, nonché amatissimo presidente, che fu Renzo Barbera. Mi colpisce sempre molto la scena di “Conversazioni in Sicilia” di Elio Vittorini, in cui emigrati fanno ritorno dal continente all’isola per le vacanze di Natale. Sul treno in movimento, sotto il cielo chiaro pulito dal vento, si staglia un palermitano, alto con gli occhi azzurri, non giovane, un cinquantenne, una piccola barba sotto il naso arricciato, la fronte olimpica, capelluto come un uomo antico in maniche di camicia a quadri scuri e con un panciotto enorme a sei taschini. Tornava dove era stato bambino. "Siamo un popolo triste", -dice ad un certo punto, -"lugubre sempre pronto a vedere nero, sconfortati e abbattuti con la tentazione di toglierci la vita, non so come spiegarlo ma d’altra parte cosa può fare uno scontento di sé, deluso, quando si abbandona e si butta via? fa la cosa che più odia di fare"- e insiste- "Palermo dovrebbe con cognizione storica sentirsi diversa, non periferia di Torino o di Roma, dovrebbe riprendersi la sua magna grecia, la sua anima di cupole, normanne, arabe, bizantine. Solo così si sentirà ancora in pace come luogo, dove gli uomini non hanno nulla da rimproverarsi l’uno con gli altri, servirebbe una coscienza fresca, nuovi doveri, cose da fare, un senso alto di primato e non solo scampanio di greggi o fruscio di reti gettate in mare aperto". Riflessioni di un libro pubblicato a puntate negli anni ’30, ben lontani da ciò che Palermo subirà nel dopoguerra, passando per un autonomia disastrosa compulsata da politici corrotti e sindaci incapaci, fino agli schianti dolorosi dello Stato moribondo fra Capaci e Via D’Amelio. Nel calcio Palermo si metterà in mostra "nazionale" non giocando neanche in Serie A ma classificandosi quarta nei cadetti: era il torneo 1973/74, quando il Palermo, superando squadre prestigiose come Lazio, Fiorentina e Juventus si guadagnò la finale di Coppa Italia contro il Bologna. Girardi, Zanin, Cerantola, Arcoleo, Pighin, Barlassina, Favalli, Ballabio Magistrelli, Vanello, La Rosa. L’undici titolare all’Olimpico quel giorno, l’inizio di una passeggiata sul belvedere calcistico. Ventimila al seguito della squadra, per accarezzare un sogno impossibile perché fino a quel drammatico e indimenticabile 23 maggio del 1974 i rosanero avevano più sofferto che vinto. Renzo Barbera apriva una nuova era con un tecnico esuberante, il quarantaquattrenne Corrado Viciani. Viciani sfidò l’Italia intera del pallone con il suo cosiddetto gioco corto (calcio brasiliano unito alla velocità degli inglesi), impose metodi di preparazioni durissimi che costringevano i giocatori ad una vita monastica, amava i ritiri lunghi e si faceva notare per il suo approccio non convenzionale, se vogliamo persino pittoresco, quando i calciatori si allenavano in mutande anche davanti alle signore. Anticipò l’era del Barcellona: possesso palla, squadra sempre all’attacco, difesa a rischio. Ma un aspetto rendeva Corrado Viciani unico: non faceva nulla per accattivarsi la simpatia dei giocatori. La notte del 23 maggio dopo avere rivisto dai suoi amici negli studi RAI le azioni incriminate, e resosi conto che Savoldi aveva battuto una rimessa che era del Palermo e inoltre il rigore non c’era, si affrettò a rintracciare Ignazio Arcoleo per dirgli: “Maledetti ci hanno fregato”. Il suo fu uno dei più grandi Palermo della storia. Sergio Magistrelli lo aveva portato in vantaggio: cross di Erminio Favalli, il bomber si alzò come un angiolino di Santa Rosalia colpendo di testa. Il Palermo dominò la partita, poco da dire, si permise il lusso di divorarsi alcuni goal apparsi già fatti. Ad ogni modo al novantesimo Barbera e i dirigenti erano pronti a bordocampo per festeggiare, solo che all’ultimo istante l’arbitro Sergio Gonnella assegnò un dubbio calcio di rigore ai rossoblù di capitan Bulgarelli e la sfida dovette decidersi ai rigori in cui i tifosi del Palermo ricordano le facce dei giocatori, maschere sconfitte ben prima di calciare dal dischetto di gesso. Renzo Barbera non volle stringere la mano al direttore di gara, gli regalò un paladino siciliano dicendogli: “Signor Gonella, questi a Palermo li chiamano paladini o pupi. Oggi, per lei, è soltanto un pupo”. L’altro giorno chiamo al telefono (pardon sullo smartphone) Gaetano, lavora all’aeroporto di Punta Raisi, è un amico di vecchia data conosciuto in campeggio al mare nei pressi di Agrigento, non ricordo più nemmeno quanti anni fa, da giovane tipo crespo e riccio, ora fin troppo stempiato e con la  barba sale e pepe, in ogni caso dalla voce non ha mai perso l'entusiasmo di quei giorni spensierati, anzi appare  entusiasta dell’arrivo di Pippo Inzaghi: 

“Ho visto che avete fatto proprio una bella coreografia per Palermo-Manchester City” - “Si- mi dice investendomi con quell’accento unico tutto loro- “i Fratelli Gallagher con delle divise vintage del Palermo, però vuoi mettere "Live forever" con Sergio Endrigo?”. 

Già vuoi mettere. 

“Io che amo solo te, io mi fermerò, e ti regalerò, quel che resta della mia gioventù”.

venerdì 15 agosto 2025

LA B DELLA MASSESE

 


Ho annusato e calpestato quei luoghi per anni e di una cosa posso essere certo, la Toscana culturalmente e linguisticamente finisce in Versilia, perché su quell’ultimo tratto veloce e assolato d’Aurelia che porta verso la Liguria o verso il Passo della Cisa e l’Emilia, il dialetto sfuma in un ibrido curioso dal sapore d’enclave, quello della Lunigiana, dei suoi testaroli e delle sue misteriose statue stele. E anche Dante Alighieri quando lassù soggiornò, invitato da Franceschino Malaspina, marchese di Mulazzo, per mettere fine ai contrasti tra la famiglia Malaspina ed i vescovi di Luni si rese conto dei bisticci fonetici. Ma a Massa, città fiabesca di mare e di marmo, di queste dissonanze poco importa; Giovanni Pascoli al suo arrivo restò colpito dal profumo degli aranceti e dagli orti che circondavano ogni casa, facendo sembrare la città seduta su lucide verdure, dove il freddo -scrisse in una lettera alle sorelle-, se c’è, è asciutto e il cielo azzurrissimo. La scintilla del calcio massese come altrove fu arte tutta studentesca e piccolo borghese, due squadre, la S.S. Pro Massa e la U.S. Massese, unitesi dopo il primo conflitto bellico in S.S. Juventus Massa, denominazione modificata ancora per la guerra seguente in Unione Sportiva Massese- Juventus. La forte amicizia tra uno dei dirigenti della società apuana e l'allora presidente della società polisportiva torinese Juventus, Piero Dusio, porterà quest'ultimo in tempo di razionamento bellico, ad alimentare il bel rapporto con l'invio di materiale sportivo da Torino, tanto da far virare definitivamente i colori della squadra da biancoverde a bianconero. Nonostante aver indossato le divise del club più titolato in Italia, se scrolliamo la tovaglia della storia della Massese cadono solo delle briciole, l’unico tozzo di pane buono resta la stagione 1969/7: l’uomo era andato sulla Luna e la Massese (toh, la Lunigiana) in Serie B. Nella ricerca dei meriti gran parte del successo va accredita a Vieri Rosati. Dalla fine degli anni Sessanta, fino alla metà degli Ottanta, Vieri Serafino Rosati, per tutti solo “Vieri”, è stato uno degli industriali di punta del territorio apuano. Aveva un'azienda di ferro, ma anche cave di marmo, una segheria e altre attività. Un autentico talismano taumaturgico per una zona bisognosa di impresa e posti di lavoro, ed il “Vieri” riuscì anche a destinare la domenica non più ad anonime scarrozzate sotto i campanili più o meno limitrofi ma a titoli d’elogio sulle pagine dei rotocalchi sportivi nazionali. Non subito, va detto. La conquista della B insomma fu un'impresa assolutamente impervia eppure alla fine esaltante, destinata a rimanere per sempre nel ricordo dei tifosi. Di quella promozione Rosati ha sempre detto: “Non è stato un miracolo, tanto che l'avevamo sfiorata la stagione passata, abbiamo registrato meglio il concetto si squadra...”. L’idea vincente fu quella di ingaggiare un tecnico capace e amato come Cesare Meucci detto il "maestro delle promozioni", che giusto un decennio prima aveva fatto il giocatore-allenatore a Massa e quindi era conosciuto e ben voluto, amato da tutti, ma i tifosi al di là dell'ossequio di rito non speravano troppo nella vittoria. Anzi, le polemiche, a partire dall'estate furono aspre e dirette verso più settori: innanzitutto stadio e campagna abbonamenti. All’epoca, infatti, ad appena dieci anni dalla sua costruzione, lo Stadio “Degli Oliveti” (che aveva sostituito il "Dina delle Piane") era ritenuto inadatto ad ospitare persino partite di Serie C, figurarsi di una categoria superiore. Si lamentava la mancanza di un punto di ristoro decente, l’imbarazzante condizione dei servizi igienici negli spogliatoi e vari problemi strutia il problema dello stadio non aiutò particolarmente la società nel lanciare gli abbonamenti, ritenuti costosi e in precampionato i poco graditi vicini della Carrarese allocati in Serie D riuscirono nello sgarbo di avere la meglio, in amichevole a Massa, sulla squadra di Meucci che cominciò con molte ombre sul progetto. La società stuzzicata nell'orgoglio provò a migliorare la rosa formata da una ossatura giovane e vogliosa di fare bene coadiuvata da qualche pezzo di esperienza. Agguantare la B però ad un certo punto sembrava sogno irrequieto e malizioso, sudaticcio e irrealizzabile. La squadra nel girone d’andata faticò più del dovuto, anzi, fino alla tredicesima giornata non riuscì a vincere nemmeno una partita. Aumentarono ovviamente le critiche. La squadra finì sulla bocca di tutti in città: a scuola, nei bar come “Il Baffo” a Marina (frequentato anche dai giocatori) e sul posto di lavoro non si parlava d’altro da mesi, nell’imprudenza delle parole e del gesto. Alla squadra mancava qualcosa, no qualcuno. Ed ecco presentarsi un milanese di 29 anni, svincolato dalla SPAL (ex Fiorentina, Lazio e Brescia) che arrivò umilmente in punta di piedi sotto le tre cime screziate delle Apuane. Qualche allenamento di prova, un passato in Serie A alle spalle e tanta voglia di rimettersi in gioco. Non ci volle molto per convincere allenatore e presidente e nel novembre del 1969 Gianpiero Vitali diventerà un nuovo calciatore della Massese. Sarà amore a prima vista. Vitali da Massa non se ne andrà più. 245 presenze (la maggior parte da capitano) a tutt’oggi il recordman di presenze con la maglia della Massese, nonché il numero 6 preferito dai tifosi. Alla sua morte gli è stato dedicato lo stadio. La squadra continuò tuttavia a balbettare, claudicante, chiudendo il girone d’andata al nono posto, più giù di metà classifica. Si decise per una sorta di ritiro punitivo a Castelnuovo Garfagnana, a causa del sospetto fondato che alcuni giocatori non vivessero esattamente in maniera "pia" la situazione bensì all'opposto, in modo eccessivo e irrispettoso, attratti dalla “movida” della costa versiliese. Toccasana, poiché sul girone di ritorno della Massese si potrebbe scrivere un libro. E in diversi a dire il vero l’hanno fatto. Non solo, qualcuno gli ha pure dedicato  un film e naturalmente c’è stato chi, guardando quelle immagini, si è commosso nel vedere le immagini della festa. Perché quella stagione vincente rappresentò Massa meglio di un saggio mostrando come lo strano pessimismo che inondava la città, potesse grazie a un pallone diventare gioia. Per cui se all’inizio della stagione la Massese portava 2000 persone al “Degli Oliveti”, man mano che la squadra inanellava risultati i gradoni diventarono sempre più stretti e ricolmi di gente e di speranze. Punti dalle spine del rimorso, con aria spadaccina, finalmente i goal di Giuseppe “Pippo” Fichera, prelevato in estate dal Catania, e di Mario Menconi guidarono la squadra ad una folle rincorsa al primo posto. Il 14 giugno del 1970 al “Degli Oliveti” staccarono 12.000 biglietti. Dopo quindici partite da imbattuta, basterà una vittoria per 3-1 contro la già retrocessa Vis Pesaro per acciuffare la promozione. Il pallone della gara fu lanciato in campo da un aeroplano, la Massese era in Serie B per l'unico campionato nei cadetti nella sua storia in quanto nessuno aveva oracoli così bravi da leggere il deprimente futuro. Quindi caroselli, mentre alla Capannina del Forte, i "Dik Dik" cantavano il primo giorno di primavera.

 

 

 

venerdì 8 agosto 2025

WHERE FOOTBALL BEGAN

 


Nel cuore verde e ramato dell’Inghilterra il cielo in certi giorni appare come sospeso, immobile, non vuole andare né avanti, né indietro, una sensazione strana tipo un cipiglio di ritrovata gioventù da sorseggiare con calma, adagio; Dronfield si presenta villaggio trovatello in pietra d’avorio e solo un autobus può portarti al campo da gioco dello Sheffield FC. Lo prendi da qualche parte tra la stazione ferroviaria e il centro e quindi, fatto un miglio, nei pressi di un leggero pendio erboso, spunta il “Coach&Horses” pub ruvido e tipico, uno di quei locali apparentemente corruschi usciti da una pagina di Charles Dickens in cui umani giullari in vecchi montgomery sbiaditi si muovono intorno a tavolini muniti di sottobicchieri che profumano di aceto bianco, dove trionfano le birre di marca Thornbridge accompagnate da tortine di manzo o pollo, purè e verdure. Lo stadio attuale dello Sheffield FC non è il primo della loro lunghissima storia, questo club (il più antico del mondo) è qui da circa venticinque anni, dopo un itinerario composto da nove stazioni iniziate con la sua fondazione avvenuta il 24 ottobre 1857 dentro una serra di Parkfield House, sobborgo della Sheffield immortalata in tela d'acciaio. Merito di Nathaniel Creswick e William Prest, barbe e baffi coevi al periodo a corredo del loro malizioso, naturale, tessere idee e persino inganni, scambiarsi lettere, ridendo ogni volta, con quel fare che pare sforzato e invece non lo è affatto, in quanto nato veramente dalla letizia di riuscire a poter realizzare i primi rudimenti del "nuovo “gioco" con la semplice missione di un gorgheggio di vetro. Il calcio si presentava passatempo disorganizzato e caotico su campi poco erbosi e perlopiù irregolari ma questi pionieri spinti a costruire qualcosa di migliore che avrebbe resistito alla prova del tempo si impegnarono assai a fondo. Nei giorni senza match è un luogo quasi mistico, senza tifosi, senza il programma, senza il "Bovril", senza le patatine fritte impregnate nella famosa salsa gravy (miscuglio di brodo di tacchino farina e burro, mah...). In genere alla mattina c'è solo l'addetto alle pulizie, parecchi anni sulle spalle, zigomi duri e pupille bizzose che palpitano sotto la berretta di cotone o lana a seconda della stagione. Un paio, anzi tre, tribune rifinite con della vernice rossa, brillante finché dura, un tunnel di tela abbastanza pacchiano e un paio di reti avvinghiate ai legni delle porte dove dopo il goal la palla si deve depositare come un'aringa affumicata lanciata da un peschereccio. Poi, ad un angolo, spunta un box office in odor d'anarchia, prefabbricato di lamiera, unica effige scarnificata del santo luogo. Una fretta di troppo o di meno sarebbe servita ma glielo concediamo come fosse un privilegio del creditore. Perché il grazie sussurrato intanto va a questo impianto che ogni amante e appassionato del calcio inglese sogna. Immerso nella campagna, accanto ad un piccolo bosco che termina con un muro di cinta. D’altra parte, cosa volete, sarà pure il club più vecchio del globo ma da queste parti ci si iscrive con fatica alla Northern Premier League Division One South, ottavo livello della Piramide dei campionati di calcio inglese, ossia quelli che agguantano i preliminari di FA Cup per un pelo però in fondo hanno anche fatto una finale del Vase nel 1977 a Wembley davanti a trentamila spettatori, mica poco se vogliamo. Era lo Sheffield FC di Chris Stanley, Mick Wing e Harry Strutt, lo Sheffield battuto nel replay dal Billericay Town. Certo, se li filavano in pochi rispetto alle altre due squadre di Sheffield, tuttavia, quel 1977 sarà l'anno della nascita di un gruppo rock formidabile nel fertile laboratorio musicale cittadino, stiamo parlando degli Human League e la loro "Don’t You Want Me" diventerà uno dei brani di riferimento del clubInsomma, al di là di tutto, lo Sheffield FC rappresenta una di quelle reliquie da mettere sotto una campana di vetro nonostante un’attualità modesta da spicci di liceo. Non a caso affratellarsi con i rossoneri dalla maglia inquartata è diventato punto di riferimento, timbro di etichetta, garanzia di dote e allora tutta la club house si ammanta più che dei propri trofei di tutta una serie di cimeli di stima lasciati o inviati da grandi compagini che sostanzialmente non avrebbero niente da spartire con la squadra ubicata in questo ameno recinto di mondo a cavallo fra Yorkshire e Derbyshire. Teniamo presente che oltre a una comparazione sibillina con il Real Madrid (Oldest&Gratest) nel giorno del 150enario al Coach&Horses venne a fare una visita Pelè e si tenne una partita amichevole contro l'Inter. Torniamo indietro: nei documenti d’archivio si legge che il primo marcatore venne registrato alla seconda partita con l’Hallam (la squadra del vicinato, guarda caso con il ground più vecchio ancora in attività, il celeberrimo Sandygate). Il referto afferma che tale David Sellars prese possesso della palla e dopo una grande corsa, segnò per gli ospiti. Nella squadra di metà Ottocento compare spesso il nome Sorby, sono quelli della Robert Sorby & Sons, ditta siderurgica, off course, fondata nel 1828, che ha ancora sede in città. In particolare, i fratelli Thomas e Oliver, titolari della squadra tra il 1873 e il 1881 e pronipoti di Robert Sorby, Maestro Coltellinaio dal 1624! Ma nello Sheffield FC hanno giocato pure due reverendi, Francis Pawson e soprattutto John Robert Blayney Owen, che si infilò la camiciona con i tre leoni durante un Inghilterra Scozia del 1874. Direi comunque che la cosa più vicina a un dato clamoroso resta il record di goal ascritto a Geoff Robinson, che giocò per "The Club" dall'arme inquartata rossonera negli anni '50 del secolo scorso. Nonostante gli fossero stati offerti contratti da professionista, scelse sempre di rimanere fra i dilettanti e nella sua prima stagione segnò 54 goal in 38 incontri, inclusa una sfilza di dieci reti in un perentorio 14-1 contro il derelitto South Kirkby Colliery. Record finale: 241 goal in 227 partite. Incredibile. Un suo compagno di squadra dell'epoca lo ricordò in un’intervista allo Sheffield Indipendent"Bevevamo e giocavamo a snooker prima delle partite. Un sabato l'ho visto bere cinque pinte prima di una partita. E di solito significava che segnava cinque gol". Il prersidente Richard Tims che gestisce la Little Masters,  un agenzia  di marketing che annovera fra i suoi clienti anche When Saturday Comes sta intercettando alcuni fattori per accrescere l'attrazione del club (e diciamolo, tenere a bada i conti) come ad esempio, di peculiare importanza fu la sponsorizzzione con Classic Football Shirt una delle ditte più rampanti nel panarama del collezionismo sportivo. La “Home of Fooball” dello Sheffield FC per certi qual versi possiamo paragonarla a un liquore, perchè no, uno di quelli che ti lasciano il retrogusto di un’ammissione di colpa. Già, tutta colpa loro, o quasi, perchè attenti le rivoluzioni possono nascere dai luoghi più improbabili.



 

MIO FRATELLO E' FIGLIO UNICO

  Nella Taranto specchiata fra il Mar Piccolo e il Mar Grande come una donna antica e fiera ci sono tute da lavoro e maglie rossoblù appese ...