Colpa del Marsala e del Rosolio. Si,
però dove c'è di mezzo un pallone da calcio di solito c'è di mezzo anche un
inglese, un commerciante in liquori. Si chiamava Joseph Whitaker, ma cosa volete a
Palermo nel vociare dei mercati lo chiamavano Giosuè, e sarà lui, smilzo
prodotto di un sobborgo di Leeds con i basettoni e i baffi a manubrio a gettare
dalla nave ormeggiata nel porticciolo della Cala una sfera di cuoio per dare il
via a quello che diventerà il Palermo Football Club, cucendo maglie con stoffa rosanero
perché il rosolio e il marsala da bere rispettivamente dopo una vittoria o dopo
una sconfitta rappresentavano metafora dolce o amara dei risultati alterni del gioco. Fu
quella Palermo, la Palermo dei carrettieri e dei braccianti d’arance, la
Palermo barocca profumata di mele e gelsomini, la Palermo dei fichi d’india e
dello zolfo, la Palermo delle zampogne e delle barche ferme in mare, in bocca
ai monti, all’Acquasanta, ad aspettare pazientemente la sua culla di passione
sportiva, passando dal fango del “Varvaro” all’inadeguato “Ranchibile”,
fino alla sequela di nomi appuntati sulla fronte della tribuna dello stadio “Littorio”
costruito all’interno del parco della Favorita, un pò alla stregua di San Siro,
con definitiva dedica a quell’autentico ultimo “gattopardo”, nonché amatissimo
presidente, che fu Renzo Barbera. Mi colpisce sempre molto la scena di “Conversazioni
in Sicilia” di Elio Vittorini, in cui emigrati fanno ritorno dal continente
all’isola per le vacanze di Natale. Sul treno in movimento, sotto il cielo chiaro pulito dal vento, si
staglia un palermitano, alto con gli occhi azzurri, non
giovane, un cinquantenne, una piccola barba sotto il naso
arricciato, la fronte olimpica, capelluto come un uomo antico in maniche di
camicia a quadri scuri e con un panciotto enorme a sei taschini. Tornava dove
era stato bambino. "Siamo un popolo triste", -dice ad un certo punto, -"lugubre
sempre pronto a vedere nero, sconfortati e abbattuti con la tentazione di
toglierci la vita, non so come spiegarlo ma d’altra parte cosa può fare uno scontento
di sé, deluso, quando si abbandona e si butta via? fa la cosa che più odia di
fare"- e insiste- "Palermo dovrebbe con cognizione storica sentirsi diversa, non periferia
di Torino o di Roma, dovrebbe riprendersi la sua magna grecia, la sua anima di cupole, normanne, arabe, bizantine. Solo così si sentirà
ancora in pace come luogo, dove gli uomini non hanno nulla da rimproverarsi l’uno
con gli altri, servirebbe una coscienza fresca, nuovi doveri, cose da fare, un
senso alto di primato e non solo scampanio di greggi o fruscio di reti gettate in mare aperto". Riflessioni di un libro pubblicato a puntate negli anni ’30, ben lontani da
ciò che Palermo subirà nel dopoguerra, passando per un autonomia disastrosa compulsata da politici corrotti e sindaci incapaci, fino agli schianti dolorosi dello Stato
moribondo fra Capaci e Via D’Amelio. Nel calcio Palermo si metterà in mostra "nazionale" non giocando neanche in Serie A ma classificandosi quarta nei
cadetti: era il torneo 1973/74, quando il Palermo, superando squadre prestigiose
come Lazio, Fiorentina e Juventus si guadagnò la finale di Coppa Italia
contro il Bologna. Girardi, Zanin, Cerantola, Arcoleo, Pighin, Barlassina,
Favalli, Ballabio Magistrelli, Vanello, La Rosa. L’undici titolare all’Olimpico
quel giorno, l’inizio di una passeggiata sul belvedere calcistico. Ventimila al
seguito della squadra, per accarezzare un sogno impossibile perché fino a quel
drammatico e indimenticabile 23 maggio del 1974 i rosanero avevano più sofferto
che vinto. Renzo Barbera apriva una nuova era con un tecnico esuberante, il
quarantaquattrenne Corrado Viciani. Viciani sfidò l’Italia intera del pallone
con il suo cosiddetto gioco corto (calcio brasiliano unito alla velocità degli inglesi), impose
metodi di preparazioni durissimi che costringevano i giocatori ad una vita
monastica, amava i ritiri lunghi e si faceva notare per il suo approccio non
convenzionale, se vogliamo persino pittoresco, quando i calciatori si allenavano in mutande anche davanti alle signore.
Anticipò l’era del Barcellona: possesso palla, squadra sempre all’attacco,
difesa a rischio. Ma un aspetto rendeva Corrado Viciani unico: non faceva nulla per
accattivarsi la simpatia dei giocatori. La notte del 23 maggio dopo avere
rivisto dai suoi amici negli studi RAI le azioni incriminate, e resosi conto che Savoldi
aveva battuto una rimessa che era del Palermo e inoltre il rigore non c’era, si
affrettò a rintracciare Ignazio Arcoleo per dirgli: “Maledetti ci hanno fregato”.
Il suo fu uno dei più grandi Palermo della storia. Sergio Magistrelli lo aveva portato in vantaggio: cross di Erminio Favalli, il bomber si alzò come un angiolino di Santa
Rosalia colpendo di testa. Il Palermo dominò la partita, poco da dire, si
permise il lusso di divorarsi alcuni goal apparsi già fatti. Ad ogni modo al
novantesimo Barbera e i dirigenti erano pronti a bordocampo per festeggiare, solo che
all’ultimo istante l’arbitro Sergio Gonnella assegnò un dubbio calcio di rigore
ai rossoblù di capitan Bulgarelli e la sfida dovette decidersi ai rigori in cui
i tifosi del Palermo ricordano le facce dei giocatori, maschere sconfitte ben prima di calciare dal dischetto di gesso. Renzo Barbera non volle stringere la mano al direttore di
gara, gli regalò un paladino siciliano dicendogli: “Signor Gonella, questi a
Palermo li chiamano paladini o pupi. Oggi, per lei, è soltanto un pupo”. L’altro
giorno chiamo al telefono (pardon sullo smartphone) Gaetano, lavora all’aeroporto di Punta Raisi, è un amico di vecchia
data conosciuto in campeggio al mare nei pressi di Agrigento, non ricordo più nemmeno quanti anni fa, da giovane tipo crespo e riccio, ora fin troppo stempiato e con
la barba sale e pepe, in ogni caso dalla
voce non ha mai perso l'entusiasmo di quei giorni spensierati, anzi appare entusiasta dell’arrivo di Pippo Inzaghi:
“Ho visto che avete fatto proprio una bella coreografia per Palermo-Manchester City” - “Si- mi dice investendomi con quell’accento unico tutto loro- “i Fratelli Gallagher con delle divise vintage del Palermo, però vuoi mettere "Live forever" con Sergio Endrigo?”.
Già vuoi mettere.
“Io che amo solo te, io mi fermerò, e ti regalerò, quel che resta della mia gioventù”.
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