Le luci dell’espresso proveniente da Londra
squarciano l’oscurità della sera.
Sei vagoni di prima e seconda classe marchiati dallo stemma della casa reale. È il treno della regina Vittoria diretto verso la Scozia. I finestrini rigidamente chiusi. Vittoria, discendente Hannover, pare non gradisse troppo gli odori di questa zona d’Inghilterra, a causa della fuliggine che ricopriva l’area. Il luogo? la Black Country, divisa fra l'area di Birmingham e Wolverhampton. Orgoglio e vanto dell'industria britannica con le sue miniere di carbone e i centri siderurgici. Oggi dell'Inghilterra Vittoriana resta solo un concetto artistico-letterario ma con un particolare invariato da allora, ovvero il senso di comunità presente fra la popolazione e si nota nel carattere un pochino rude e affilato. Insomma il West Bromwich Albion non poteva che nascere dove il verbo del calcio si fa duro come in pochi altri posti al mondo. Immaginiamola allora la West Bromwich di fine Ottocento, quella radunata nel dopolavoro, impegnata in scommesse poco raffinate dietro ai pub, in fangose arene improvvisate. Qualche pound in palio per la vittoria del proprio gallo da combattimento, fra pinte gocciolanti e urlacci sdentati. Inutile storcere il naso, le leggi che vietavano questo tipo di pratiche da queste parti non funzionavano. Tempacci direbbe qualcuno e bisognava trovare dei passatempi. Poi finalmente si incomincerà a parlare di “football” durante le pause mensa, all’uscita dal lavoro, in animati capannelli; berretti in testa e giacche sporche, sotto lampioni morenti, battuti da un vento insolente. I più giovani avevano visto un paio di partite e ciò bastava, pare mancasse solo la cosa principale: il pallone. A West Bromwich non esistevano negozi di articoli sportivi, ce n’era uno a Wednesbury, pugno di case annerite a qualche miglio di distanza. Fu così che un gruppo di lavoratori della George Saleter’s Spring Work, fabbrica specializzata nella costruzione di utensili da cucina, il 20 settembre 1878 non solo acquisteranno una sfera fatta con veschiche di maiale e rivestita in cuoio ma fondano l'embrione del West Bromwich Albion dove il suffisso richiamava al distretto in cui abitavano la maggior parte degli operai della George Salter’s. A quel punto occorreva trovare un posto adatto e soprattutto definitivo per continuare a giocare. Dartmouth Park, Coopers Hill, Bunn’s Feld, Stoney Lane (soprattutto) i primi luoghi scelti per ospitare le partite, ma anche parchi e piazzole contrassegnati da divise con tonalità diverse, almeno fino al 1885 quando si deciderà di indossare le strisce verticali biancoblù. Intanto il WBA si trasferirà sul campo di Stoney Lane, dove diventerà un club professionistico raggiungendo tre finali di FA Cup consecutive. Nel 1900 l’impianto di Stoney Lane però era uno dei peggiori della massima divisione, tanto che le presenze si erano drasticamente ridotte ponendo il club di fronte a una possibile crisi finanziaria. Occorreva trovare una soluzione alternativa a maggior ragione considerando che il contratto di locazione stava scadendo. La scelta migliore risultò essere un terreno di dieci acri leggermente fuori città in un’area ricoperta da cespugli di biancospino. Traduzione letterale, The Hawthorns. Il primo impianto inaugurato dall’inizio dell’secolo, diventando nel corso degli anni The Shrine (il Santuario), che aprì i battenti ufficialmente lunedì 3 settembre 1900, quando l’Albion pareggiò 1-1 con il Derby County di fronte a una folla di 20.104 presenti. Reti di Steve Bloomer per il Derby, e Chippy Simmons per i padroni di casa. Quello del biancospino è un aspetto peculiare anche per il crest societario. Si racconta che la squadra frequentasse un locale dove era tenuto in gabbia un tordo, un uccello canoro di piccole dimensioni. Fu scelto come stemma della squadra e ovviamente fu fatto poggiare su un ramo del suddetto arbusto. “Baggies” quindi (o Throstles) ma se vogliamo aggrapparci alle teorie mettiamole un paio sul tavolo. Una è legata al fatto che il termine prendesse spunto dai larghi pantaloni (baggy trouser) usati dai lavoratori delle fonderie per proteggersi dai lapilli di ferro incandescenti, oppure sussistono la possibilità che l’etimo sia legata ai custodi dei due ingressi originari di The Hawthorns, che al termine delle partite, scortati da due poliziotti, trasportavano agli uffici del club l’incasso del match dentro sacchetti di tela di grandi dimensioni. Divergenze: il dibattito resta aperto. È il periodo di Jessie Pennington detto Peerless, un ragazzone che giocava terzino sinistro e che è entrato di diritto nella storia dell’WBA per aver raccolto quasi 500 presenze fra il 1903 e il 1922. A dirla tutta sventò anche una truffa organizzata da un certo William Bioletti (toh, di origine italiana) di mestiere “scommettitore” che provò a corrompere Pennington per cercare di far vincere l’Everton nella partita del 29 settembre 1913. Sette anni dopo Jessie si sarebbe anche laureato campione d’Inghilterra con i Baggies, evento finora unico, contrassegnato dai 37 centri di Fred Morris. Facendo uno scomodo salto temporale sarà il decennio degli anni Sessanta il periodo più fertile del club, quello del Re: Jeff Astle. Meglio conosciuto come Jeff “the King” Astle. Nato a Eastwood, nel Nottinghamshire, nel bel mezzo delle Midlands. Nella stessa strada nativa di un grande personaggio della cultura inglese, il poeta DH Lawrence, un romanziere vigoroso e originale che rispecchiò efficacemente la rivolta della sua generazione contro l'epoca vittoriana e non a torto considerato profeta e mistico del sesso con quasi mezzo secolo di anticipo sui figli dei fiori. In ogni caso Astle diventerà il primo giocatore a segnare un goal in ciascun turno di FA Cup. Dentatura da castoro e aplomb da personaggio da commedia, diventò un calciatore professionista nel 1959, all’età di 17 anni, quando firmerà un contratto con il Notts County. Un classico centravanti dei suoi tempi che apprenderà molto da quello che in molti reputavano la sua musa d’ispirazione ovvero Tommy Lawton. Nel 1964 Astle passerà per 25,000 sterline al West Bromwich Albion. Ed è certo che quella rete segnata all’Everton dopo tre minuti dal fischio d'inizio del primo supplementare nella finale di FA Cup del 1968 è stato senza dubbio il più importante della sua carriera. Un colpo da biliardo dopo una prima ribattuta, che indirizzò la palla color ocra nell’angolino alto della porta difesa dall’estremo difensore dei Toffes. Poche ore dopo il trionfo di Wembley sul ponte che attraversa un canale a Netherton, su Cradley Road, nel cuore della Black Country compare la scritta a caratteri cubitali ASTLE IS THE KING. Il ponte perde per volontà popolare il suo tradizionale nome, Primrose Bridge, per divenire per tutti Astle Bridge. Nemmeno le ferree autorità locali riuscirono a ristabilire l’ordine toponomastico del luogo perché, quando decisero di cancellare la scritta, questa torno a far bella mostra nel giro di poche ore. Probabilmente ad Astle è mancato solo il titolo della First Division, della quale comunque è stato capocannoniere nella stagione 1969-70 con 25 reti segnate. Nel programma Football Fantasy League, il 19 gennaio del 2002 Jeff Astle ebbe un malore mentre si trovava a casa della figlia. Il rapido trasporto al vicino ospedale di Burton on Trent fu vano e così a soli 59 anni “Il Re” lasciava questo mondo per salire le scale dell’Olimpo dei grandi. Il giorno dopo la sua scomparsa a The Hawthorns era il pomeriggio del derby contro il Walsall, deciso da una rete di Jason Roberts, (nipote di Cyrille Regis un’altra leggenda dei Baggies) che sollevandosi la maglia bianco-blu, mostrò al suo pubblico una t-shirt con l’immagine di Astle. Anche nella morte Jeff Astle ha segnato un record, purtroppo meno invidiabile degli altri. A lui fu riconosciuta la morte “per causa di servizio”, in inglese "death by industrial injury". In pratica il coroner disse che Astle aveva subito dei microtraumi al cervello, dovuti ai frequenti impatti della testa con la palla. Una disgrazia quasi paradossale. "Astle is the king, Astle is the king, the Brummie Roaders sing this song, Astle is the king": E' l’11 luglio 2003, e a The Hawthorns dedicarono al loro grande eroe l’ingresso del nuovo East Stand, una lunga cancellata ricoperta di sciarpe e fiori denominata Astle Gate. I cancelli della memoria. Negli anni settanta durante il regno di Don Howe il WBA retrocesse mestamente in seconda divisione, tornando fra i grandi solo nel 1976 guidati in panchina dal player manager Johnny Giles. E se in questo periodo esiste un giocatore che ha incarnato benissimo lo spirito di questa terra, il perfetto assioma fra Black Country e calcio inglese, quello è senza dubbio Tony Brown. Antony all’anagrafe di Oldham, dove nasce nell’ottobre del 1942. Introverso e gran lavoratore, deve convivere con una particolare forma d’asma. Non il massimo per chi è costretto a respirare nella cintura urbana, grigia e umida di Manchester. Ma a quattordici anni, quando ancora non ha sviluppato i suoi baffi da pirata dei sette mari, i consulti medici lo incoraggiano e lo indirizzano verso l’attività sportiva. E il problema tende rapidamente a scomparire. Nelle formazioni giovanili scolastiche si guadagna l’attenzione dei maggiori club del circondario, prima di tutti quelle del Manchester City. Ma lui a differenza di Jimmy Grimble, tifa per l’altra squadra della città, lo United, e decide di prendere la strada verso Old Trafford. Il palcoscenico dell’immenso teatro che gli si para innanzi, è calcato da troppe stelle, Tony non riuscirà a inserirsi bene, e allora arriva il provino con il WBA. Un incontro fortunato e decisivo per entrambi. Nascerà un amore assolutamente ricambiato a livello umano, mentre dal lato prettamente tecnico nascerà una mezzala agile ed estremamente prolifica, che dal dischetto si dimostra un’autentica sentenza. Spettacolare il goal messo a segno in una partita persa contro lo Sheffield Wednesday in FA Cup, quando da 35 metri gira al volo alle spalle del portiere della nazionale inglese Ron Springett. Meno bello ma sicuramente più pesante quello infilato alla squadra della sua città, l’Oldham, che varrà la promozione dei Baggies in First Division nel 1976. Impossibile non ricordare anche nel 1974 farà il suo esordio nel WBA Bryan Robson, “Captain Marvel”, con molta probabilità il miglior giocatore inglese degli anni '80. Leader carismatico, grande trascinatore, un giocatore di impareggiabile impegno e determinazione dotato di buona tecnica. Devastante quando portava il pressing, così come, quando sfruttando il suo piede dolce lanciava i compagni con passaggi sontuosi. "Robbo", un formidabile "ruba palloni". Nei suoi confronti si usava spesso questa frase: "C'mon Robbo, win it for us". Con i Baggies segnerà quaranta reti in sette anni. Lì lascerà nel 1981 per approdare in un mediocre Manchester United, per una cifra vicina ai 2,7 milioni di sterline. Sono gli anni degli ultimi squilli di gloria. Nel 1978 Big Ron Atkinson raggiunge le semifinali di FA Cup, ma dove il frizzante Ipswich Town di Bobby Robson estromette i baggies dalla finale.Per un club del livello del WBA una delle notti più belle arrivò nel dicembre del 1978, all'inizio di un inverno gelido che alla fine avrebbe privato il WBA del trofeo che quel lato celestiale di arguzia, verve e genio avrebbe meritato. Negli ottavi della Coppa UEFA a The Hawtorns arrivò il Valencia, ampiamente riconosciuto come una delle migliori squadre d'Europa e in quella stagione, schierava il regista della Germania Ovest Rainer Bonhof oltre, cosa più importante, l'attaccante Mario Kempes, il marcatore emblematico nella vittoria dell’Argentina in quella grandinata di telescriventi alla Coppa del Mondo di quell'estate. A Valencia Laurie Cunningham oscurò Kempes, e alla fine uscì un precario 1-1 A The Hawthorns, Tony Brown segnò un rigore nel primo tempo, vennero annullati altri due goal, poi Cyrille Regis colpirà un palo, e subito dopo Tony Godden salvò il risultato parando un calcio di punizione. Laurie Cunningham languido ma fulmineo metterà in mezzo per l'accorrente Tony Brown che fattosi il giusto spazio colse il cross perfetto del compagno e la palla finirà nell'angolo più lontano della rete. Per usare le parole del commentatore Hugh Johns: "Questo è quello che serviva!". Poi, un lento inesorabile declino, con effimeri successi, e qualche presenza a Wembley per i play off di categoria, Premier sfiorate o subito perdute. Se per ipotesi Bryan Robson avesse sognato un degno erede nel cuore del centrocampo forse potrebbe rivedersi per qualche misura in Graham Dorrans, che Tony Mombray portò a West Bromwich nel 2008. Un ragazzo di Glasgow, composto, creativo, combattivo e coerente che guidato da Roberto di Matteo conquistò la Premier League ma durerà poco. The Lord's My Shepherd… we are Albion.


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