lunedì 22 settembre 2025

BRIDGE OVER TROUBLED WATER

 


Donne, un affare di cuore. C’è chi afferma che ogni tanto gli zoccoli del cavallo di Re Carlo II riecheggiano solenni lungo King’s Road, la strada dell’elegante quartiere di Chelsea a cui lui ha dato il nome perché l’attraversava spedito per andare a raggiungere la sua amante in un rifugio segreto. Nel XVII secolo era solo una modesta strada di campagna con un piccolo villaggio di pescatori che nei secoli si è trasformato diventando il quartiere simbolo dell'aristocrazia londinese. Poco più di due chilometri che separano il massimo della raffinatezza, da lunghe teorie di case popolari. Per anni punto di riferimento di artisti, intellettuali e scrittori che trasformarono Chelsea in uno dei primi centri bohémienne europei. La lista dei residenti illustri è incredibilmente lunga e citare ogni singolo nome sarebbe follia, però senza dubbio vale la pena ricordare personaggi come Oscar Wilde, George e T.S. Eliot, Agatha Christie, Jonathan Swift e Mary Shelley. Qui, Mary Quant lanciò dal suo negozietto tutt'ora in loco la moda della minigonna. Qui, dove se volete iniziare una passeggiata vi conviene partire da Sloan Square e scivolare accompagnati in sincronica sequenza dalla cortina di palazzi in mattoni rossi e stucco bianco fra boutique, caffè, ristoranti e negozi di antiquariato. Alla fine, troverete il vecchio Bridge, che tanto vecchio non è più e nemmeno lo stesso di tanti anni fa. Oggi è uno stadio moderno, rivoluzionato, anche strutturalmente da quello degli anni Settanta territorio di caccia dei temibili “Headhunters” sgusciati fuori dal loro covo naturale di gradoni denominato “Shed”. Ovviamente non è nemmeno quello delle origini, quando rischiò addirittura di scomparire quando per poco l’impianto rischiò di finire alla Great Western Railway, la quale, necessitava di uno spazio per costruire un deposito da utilizzare come rimessa di carbone. Nel 1970, il Chelsea non aveva ancora vinto la FA Cup. Era diventato campione d’Inghilterra, è vero, sotto la guida di Ted Drake ma la coppa era sempre sfuggita come tre anni addietro, nel 1967 quando nella “Cockney Cup Final” il Tottenham si era imposto sui blues per 2-1. La finale del 1970 il Chelsea se l’era guadagnata proprio in casa degli Spurs, il 14 marzo, travolgendo per 5-1 il Watford con una doppietta di Peter Houseman, i centri di un purissimo “east enders" come David Webb, poi Peter Osgood e Ian Hutchinson. Quella era la squadra di Dave Sexton, il Chelsea di quel quasi commovente blu privo di strane marchette e orpelli vari recante solo il leone rampante del Conte di Cadogan, con le due stelline di contorno, il Chelsea dei primi "seventie's" da associare per mutualità e situazionismo a "Bridge over Troubled Water" di Simon & Garfunkel, il Chelsea fatto di capelli al vento, aria sbarazzina e qualche bagordo di troppo. Sexton nativo di Islington ed ex manager dell’Orient, figlio di un pugile e cresciuto secondo educazione gesuita era subentrato a Tommy Docherty all’inizio della stagione 1967/68 (dopo la breve parentesi di Ron Stuart) e si ritrovò fra le mani la patata bollente, vale a dire il George Best di Windsor, Peter Leslie Osgood: “The King of Stamford Bridge”. Un predestinato, visto che a 17 anni firmerà per la squadra giovanile del Chelsea e al suo debutto in Coppa di Lega, sarà subito decisivo realizzando una doppietta. Calciatore dalle basette inconfondibili, geniale e imprevedibile tanto in campo e nella vita quotidiana, quando per esempio pensò bene di fare scalpore infilandosi una t-shirt indossata all’epoca dalla star del cinema Raquel Welch con la scritta “I scored with Osgood”, a conferma che il buon vecchio “Wizard of Os” non ci sapeva fare solamente con il pallone. Quello con il manager fu un rapporto complicato, ma è certo che non era l’unico problemino per Sexton che doveva tenere a bada anche gli amichetti di Ossie, gente come Alan Hudson e Charlie Cook, assoluti maestri del controllo della sfera, oltre a ragguardevoli scorribande notturne. Ma alla fine, bevute, donne e auto veloci non riuscirono a rovinare del tutto lo stile di gioco di quella squadra, talvolta indolente, anzi l'odore caprino in qualche modo aiuterà le manovre offensive. A difendere le “capienti” porte di Stamford Bridge, c’era Peter “The Cat” Bonetti, vent’anni al servizio alla causa con 729 presenze totali. Approdò ai blues nel 1958 dopo che la madre inviò una lettera alla dirigenza del club chiedendo di valutare attentamente le qualità del proprio figlio e di concedergli almeno una chance. Di lui disse una volta Pelè: “I tre migliori portieri che abbia mai visto sono Gordon Banks, Lev Yaschin e Peter Bonetti”. Davanti la spina dorsale, formata dal difensore Ron "Chopper" Harris, uno rimasto sempre all'altezza del suo nome negli interventi con in mezzo al campo Terry Venebles e John Hollins a creare geometrie offensive per quelli là davanti. Ci sarebbe da aggiungere che l’avversario di quel Chelsea nella finale di FA Cup di quella stagione era il Leeds United di Don Revie, altro gruppo di raccomandabili elementi da Cayenna che in semifinale avevano avuto bisogno di tre partite per avere la meglio sul Manchester United. Per pura nota di cronaca nessuno dei due club aveva mai vinto il trofeo, il cui atto conclusivo a causa del mondiale messicano alle porte, la federazione decise di giocarlo in largo anticipo rispetto alle date classiche fissando l’appuntamento per l’11 aprile. Fatto sta che il dolce manto erboso sotto le due torri si presentò in pessime condizioni a causa della presenza fino a qualche giorno prima della Horse of the Year Show - noto anche come HOYS ossia la manifestazione culmine degli eventi equestri britannici che aveva reso il terreno una distesa sabbiosa, non certo usuale per l’evento più atteso della stagione calcistica inglese. "Jack" Charlton portò in vantaggio il Leeds con un colpo di testa, sul quale McCradie e Harris non riuscirono a intervenire sorpresi dal mancato rimbalzo della palla. Il pari del Chelsea avvenne in maniera altrettanto strampalata, allorché un tiro da fuori aerea di Houseman non venne trattenuto dal portiere Gary Sprake che si lasciò sfuggire la sfera per l’1-1. Finale incandescente con gli Yorkshiremen in vantaggio a sei dal termine grazie a Mick Jones, e definitivo pareggio di Hutchinson due minuti dopo. Un Wembley così disastrato non si era mai visto. Giocare la ripetizione poteva veramente creare grossi problemi, e così per la prima volta dal 1923 si decise che la finale di FA Cup si sarebbe dovuta disputare in uno stadio diverso. La scelta ricadde sull’Old Trafford di Manchester. E furono 26,49 i milioni di spettatori seduti davanti alla televisione il 29 aprile 1970 per assistere al replay tra Chelsea e Leeds, un risultato che ha fatto entrare l’evento nella top ten dei programmi più seguiti nella storia della BBC, dietro solamente alla finale di coppa del mondo del 1966. Ad arbitrare l’incontro, il quarantasettenne Eric Jennings da Stourbridge che anni dopo dichiarò che, se quella partita si fosse giocata in tempi più moderni non sarebbero bastati sei cartellini rossi e venti gialli per arginare "l'animus pugnandi" profuso dalle due formazioni. Di quell’incontro al di là delle scintille in campo, del calcione di Ron Harris all’ ala scozzese Eddie Gray, di un rapido scambio di pugni fra Norman Hunter e Ian Hutchinson, si ricorda la serata buia di Manchester e le calze gialle che il Chelsea decise di indossare in quell’occasione. Il club decise infatti di giocare la replica con i calzettoni gialli della divisa da trasferta. E, dato il prestigio dell'occasione, si decise anche che, per completare il look che sarebbe stato visto da milioni di spettatori televisivi in ​​diretta, i giocatori avrebbero indossato anche maglie con lo stemma giallo del club e pantaloncini con una striscia sempre gialla completata dai relativi numeri. Non è noto se l'ispirazione per queste modifiche relativamente piccole ma di grande importanza alla divisa del Chelsea sia venuta dall'interno del club o dal produttore di divise Umbro. Tuttavia, senz'altro è stata una scelta ispirata ed il risultato fu una delle divise più iconiche che la squadra abbia mai indossato. Oh, attenzione i bianchi di Leeds andarono in vantaggio per primi con Mick Jones nel primo tempo ma a poco meno di dieci dal termine un cross di Cooke imbeccò la testa di Osgood che in tuffo pareggiò il risultato della gara. Tempi supplementari, quindi, dove spunterà il personaggio che non ti aspetti, quel David Webb che talvolta appariva per caratteristiche caratteriali elemento fuori luogo nello spogliatoio dei blues. A innescarlo una rimessa laterale di Hutchinson al minuto 104 che la “giraffa” John (Jack) Charlton prolungò maldestramente anticipando l’uscita di David Harvey con la palla che colpita in qualche maniera dall’accorrente Webb finirà in rete regalando così la prima coppa d’Inghilterra al Chelsea, alzata al cielo da capitan Harris nella gremitissima tribuna del Trafford. Mi fermo qui tuttavia a dirla tutta l’anno seguente la squadra di Dave Sexton conquisterà anche l’alloro europeo vincendo la Coppa delle Coppe ad Atene contro il Real Madrid che sicuramente non era più quello di Alfredo De Stefano e del Colonello Puskas in ogni caso restava pur sempre la squadra più importante del continente. Anche in quell’occasione ci vollero due partite, anche in quell’occasione gli avversari in campo erano in bianco, anche in quell’occasione segnerà Peter Osgood. Ma quella non era certo una novità... 

Blue is the colour.

venerdì 5 settembre 2025

AL DI QUA DEL PONTE






Al di qua del Ponte. Terraferma, bivacco di strade, indigestione di piani urbanistici, i rumori di Porto Marghera, muri di caserma, una porta da garage a fare da ingresso al campo sotto una posticcia torretta decadente quasi a richiamare cautamente lo stile liberty. Non ce ne voglia l’asso dei cieli ma lo stadio “Francesco Baracca” di Mestre si incastra proprio lì in mezzo ai caseggiati dalle mille viste, alloggio o ostello da mezza stella puntato da binocoli di marina, tubi innocenti a gridar curva e un paio di tribunette a perimetrare il nobile cuore di un club che pare sia stato uno dei primi, se non addirittura il primo a far germinare l’idea di calcio in Italia dedicandogli spazi e attenzione, attraverso una storia rocambolesca, fatta di mutazioni, di strambe virate e di  ambizioni acerbe, maturate per lo più, in meno di un decennio quando qui nel 1979 bussò, s’affacciò, con sentimenti virtuosi, l’industriale Guido Robazza, a ribattezzare gli arancioneri in Associazione Calcio Mestre e dopo tanta clausura dal sapore di sarde marinate arriverà la promozione in serie C1. Il calcio a Mestre, similmente a quasi tutte le piazze incrostate di salsedine, lo partoriranno ufficiali britannici dal 1889 ma il talamo di nozze coinvolse subito anche i mestrini con la Società Marziale che nel 1893 acquisterà per una manciata di “schei” l’attuale terreno del “Baracca” all’epoca conosciuto come Ippodromo. Domicilio occupato dal rifondato giostando sull'ufficialità anagrafica della fondazione datata 1929 unendo più società: "Mestre FC 1909, Mestre FBC, Libertas e Spus" in "Unione Sportiva Mestrina". Debutto pregevole in Terza divisione dominando il campionato e ottenendo in tal modo una promozione in Serie B per la stagione 1946-1947 dove la squadra arancione partì alla grande, cosicché dopo tredici giornate si troverà addirittura solitaria in vetta alla classifica e qualcuno, suppongo, per il suo gioco veemente la soprannominerà il piccolo Torino. Tuttavia, i sorrisi si arricciarono in fretta fino alla malinconia perché nel seguito del torneo la squadra collezionò diverse sconfitte e retrocesse balzando fuori a precipizio da una cadetteria mai più sfiorata. Fu, come detto, nel 1979 che la "Mestrina", anzi il Mestre rilevato da Guido Robazza, reduce dalla ultradecennale esperienza alla guida della Pro Mogliano, durata dal campionato 1979-1980 al 1986-1987) attraversò annate di buoni risultati, con la squadra militante in pianta stabile nei campionati professionistici. Per la gioia dei locali, di quelli a cui ancor’oggi la fusione con il Venezia per salvare capra e cavoli è sembrata una “porcata” bella e buona, al termine della stagione 1979/80 l'A.C. Mestre si classificò al sesto posto nel girone di Serie C2, precedendo i veneziani. E nella programmazione a venire studiata fra Via Guglielmo Oberdan e Via Francesco Baracca, i vari Guido Robazza, il segretario Iginio Rossi e il Direttore sportivo Edj Sartori, puntarono apertamente alla promozione in Serie C1, arrivata nel giro di due anni, nel 1982, quando il Mestre, giunto secondo nel proprio girone a pari merito con la Vigor Senigallia (alle spalle della capolista Ancona), vincerà lo spareggio contro i marchigiani, garantendosi l'accesso alla agognata categoria. Era il Mestre di Giorgio Rumignani un uomo dai sentimenti in punta di piedi, tiepido e cauto, eppure quel Mestre giocava senza troppi preamboli tattici, da Romero Rombolotto, a Luciano Speggiorin al capitano baffuto Giuliano Groppi. il “Baracca” con la base dei pali delle porte dipinte in nero come usava molto in quel periodo era sempre fin troppo pieno (e anche gli "abusivi" dei palazzi erano in tanti a godersi la partita su logge e terrazze). E poi quel coro: “Tappi gol, Tappi gol, Tappi gol, Tappi gol. Davide Tappi il primo come dicono loro “a ciappar 10 in pagea el giorno dopo sul Gasetin”. Successe il 5 dicembre del 1982, una data entrata di diritto nel cuore di tutti i tifosi arancioneri: allo stadio Baracca imballato da 8000 persone, il Mestre superò la Spal per 4-0 con quattro reti messe a segno dalla “Freccia Bionda” Davide Tappi, uno degli attaccanti più amati di sempre dal popolo mestrino. Alla fine, furono solo alcuni episodi sfortunati, piuttosto che il demerito, a condannare il Mestre alla retrocessione (se al tempo ci fossero stati i tre punti a vittoria, gli arancioneri si sarebbero salvati). Nonostante ciò, le statistiche sulle presenze allo stadio, videro il Mestre quell’anno fra le squadre più seguite dell'intera serie C. Poi i problemi finanziari, l’incorporazione con il Venezia, le diatribe, le tentate secessioni, il malcontento, anzi dal malcontento però apparirà la "Malcontenta" (nomen omen) squadra che ridarà vita al calcio a Mestre, vincendo nel 1994-95 il Campionato Veneto di Eccellenza e, nella successiva stagione, il Campionato Nazionale Dilettanti. Dopo meno di dieci anni dall'amalgama, il Mestre riapprodava insomma quantomeno in serie C2. Mica poco in fondo all’ombra merlata della Torre dell’Orologio, simbolo della città, senza voler essere blasfemi la loro Clock End.

lunedì 1 settembre 2025

ALBION TILL I DIE

 




Le luci dell’espresso proveniente da Londra 

squarciano l’oscurità della sera. 

Sei vagoni di prima e seconda classe marchiati dallo stemma della casa reale. È il treno della regina Vittoria diretto verso la Scozia. I finestrini rigidamente chiusi. Vittoria, discendente Hannover, pare non gradisse troppo gli odori di questa zona d’Inghilterra, a causa della fuliggine che ricopriva l’area. Il luogo? la Black Country, divisa fra l'area di Birmingham e Wolverhampton. Orgoglio e vanto dell'industria britannica con le sue miniere di carbone e i centri siderurgici. Oggi dell'Inghilterra Vittoriana resta solo un concetto artistico-letterario ma con un particolare invariato da allora, ovvero il senso di comunità presente fra la popolazione e si nota nel carattere un pochino rude e affilato. Insomma il West Bromwich Albion non poteva che nascere dove il verbo del calcio si fa duro come in pochi altri posti al mondo. Immaginiamola allora la West Bromwich di fine Ottocento, quella radunata nel dopolavoro, impegnata in scommesse poco raffinate dietro ai pub, in fangose arene improvvisate. Qualche pound in palio per la vittoria del proprio gallo da combattimento, fra pinte gocciolanti e urlacci sdentati. Inutile storcere il naso, le leggi che vietavano questo tipo di pratiche da queste parti non funzionavano. Tempacci direbbe qualcuno e bisognava trovare dei passatempi. Poi finalmente si incomincerà a parlare di “football” durante le pause mensa, all’uscita dal lavoro, in animati capannelli; berretti in testa e giacche sporche, sotto lampioni morenti, battuti da un vento insolente. I più giovani avevano visto un paio di partite e ciò bastava, pare mancasse solo la cosa principale: il pallone. A West Bromwich non esistevano negozi di articoli sportivi, ce n’era uno a Wednesbury, pugno di case annerite a qualche miglio di distanza. Fu così che un gruppo di lavoratori della George Saleter’s Spring Work, fabbrica specializzata nella costruzione di utensili da cucina, il 20 settembre 1878 non solo acquisteranno una sfera fatta con veschiche di maiale e rivestita in cuoio ma fondano l'embrione del West Bromwich Albion dove il suffisso richiamava al distretto in cui abitavano la maggior parte degli operai della George Salter’s. A quel punto occorreva trovare un posto adatto e soprattutto definitivo per continuare a giocare. Dartmouth Park, Coopers Hill, Bunn’s Feld, Stoney Lane (soprattutto) i primi luoghi scelti per ospitare le partite, ma anche parchi e piazzole contrassegnati da divise con tonalità diverse, almeno fino al 1885 quando si deciderà di indossare le strisce verticali biancoblù. Intanto il WBA si trasferirà sul campo di Stoney Lane, dove diventerà un club professionistico raggiungendo tre finali di FA Cup consecutive. Nel 1900 l’impianto di Stoney Lane però era uno dei peggiori della massima divisione, tanto che le presenze si erano drasticamente ridotte ponendo il club di fronte a una possibile crisi finanziaria. Occorreva trovare una soluzione alternativa a maggior ragione considerando che il contratto di locazione stava scadendo. La scelta migliore risultò essere un terreno di dieci acri leggermente fuori città in un’area ricoperta da cespugli di biancospino. Traduzione letterale, The Hawthorns. Il primo impianto inaugurato dall’inizio dell’secolo, diventando nel corso degli anni The Shrine (il Santuario)che aprì i battenti ufficialmente lunedì 3 settembre 1900, quando l’Albion pareggiò 1-1 con il Derby County di fronte a una folla di 20.104 presenti. Reti di  Steve Bloomer per il Derby, e Chippy Simmons per i padroni di casa. Quello del biancospino è un aspetto peculiare anche per il crest societario. Si racconta che la squadra frequentasse un locale dove era tenuto in gabbia un tordo, un uccello canoro di piccole dimensioni. Fu scelto come stemma della squadra e ovviamente fu fatto poggiare su un ramo del suddetto arbusto. “Baggies” quindi (o Throstles) ma se vogliamo aggrapparci alle teorie mettiamole un paio sul tavolo. Una è legata al fatto che il termine prendesse spunto dai larghi pantaloni (baggy trouser) usati dai lavoratori delle fonderie per proteggersi dai lapilli di ferro incandescenti, oppure sussistono la possibilità che l’etimo  sia legata ai custodi dei due ingressi originari di The Hawthorns, che al termine delle partite, scortati da due poliziotti, trasportavano agli uffici del club l’incasso del match dentro sacchetti di tela di grandi dimensioni. Divergenze: il dibattito resta aperto. È il periodo di Jessie Pennington detto Peerless, un ragazzone che giocava terzino sinistro e che è entrato di diritto nella storia dell’WBA per aver raccolto quasi 500 presenze fra il 1903 e il 1922. A dirla tutta sventò anche una truffa organizzata da un certo William Bioletti (toh, di origine italiana) di mestiere “scommettitore” che provò a corrompere Pennington per cercare di far vincere l’Everton nella partita del 29 settembre 1913. Sette anni dopo Jessie si sarebbe anche laureato campione d’Inghilterra con i Baggies, evento finora unico, contrassegnato dai 37 centri di Fred Morris. Facendo uno scomodo salto temporale sarà il decennio degli anni Sessanta il periodo più fertile del club, quello del Re: Jeff Astle. Meglio conosciuto come Jeff “the King” Astle. Nato a Eastwood, nel Nottinghamshire, nel bel mezzo delle Midlands. Nella stessa strada nativa di un grande personaggio della cultura inglese, il poeta DH Lawrence, un romanziere vigoroso e originale che rispecchiò efficacemente la rivolta della sua generazione contro l'epoca vittoriana e non a torto considerato profeta e mistico del sesso con quasi mezzo secolo di anticipo sui figli dei fiori. In ogni caso Astle diventerà il primo giocatore a segnare un goal in ciascun turno di FA Cup. Dentatura da castoro e aplomb da personaggio da commedia, diventò un calciatore professionista nel 1959, all’età di 17 anni, quando firmerà un contratto con il Notts County. Un classico centravanti dei suoi tempi che apprenderà molto da quello che in molti reputavano la sua musa d’ispirazione ovvero Tommy Lawton. Nel 1964 Astle passerà per 25,000 sterline al West Bromwich Albion. Ed è certo che quella rete segnata all’Everton dopo tre minuti dal fischio d'inizio del primo supplementare nella finale di FA Cup del 1968 è stato senza dubbio il più importante della sua carriera. Un colpo da biliardo dopo una prima ribattuta, che indirizzò la palla color ocra nell’angolino alto della porta difesa dall’estremo difensore dei Toffes. Poche ore dopo il trionfo di Wembley sul ponte che attraversa un canale a Netherton, su Cradley Road, nel cuore della Black Country compare la scritta a caratteri cubitali ASTLE IS THE KING. Il ponte perde per volontà popolare il suo tradizionale nome, Primrose Bridge, per divenire per tutti Astle Bridge. Nemmeno le ferree autorità locali riuscirono a ristabilire l’ordine toponomastico del luogo perché, quando decisero di cancellare la scritta, questa torno a far bella mostra nel giro di poche ore. Probabilmente ad Astle è mancato solo il titolo della First Division, della quale comunque è stato capocannoniere nella stagione 1969-70 con 25 reti segnate. Nel programma Football Fantasy League, il 19 gennaio del 2002 Jeff Astle ebbe un malore mentre si trovava a casa della figlia. Il rapido trasporto al vicino ospedale di Burton on Trent fu vano e così a soli 59 anni “Il Re” lasciava questo mondo per salire le scale dell’Olimpo dei grandi. Il giorno dopo la sua scomparsa a The Hawthorns era il pomeriggio del derby contro il Walsall, deciso da una rete di Jason Roberts, (nipote di Cyrille Regis un’altra leggenda dei Baggies) che sollevandosi la maglia bianco-blu, mostrò al suo pubblico una t-shirt con l’immagine di Astle. Anche nella morte Jeff Astle ha segnato un record, purtroppo meno invidiabile degli altri. A lui fu riconosciuta la morte “per causa di servizio”, in inglese "death by industrial injury". In pratica il coroner disse che Astle aveva subito dei microtraumi al cervello, dovuti ai frequenti impatti della testa con la palla. Una disgrazia quasi paradossale. "Astle is the king, Astle is the king, the Brummie Roaders sing this song, Astle is the king": E' l’11 luglio 2003, e a The Hawthorns dedicarono al loro grande eroe l’ingresso del nuovo East Stand, una lunga cancellata ricoperta di sciarpe e fiori denominata Astle Gate. I cancelli della memoria. Negli anni settanta durante il regno di Don Howe il WBA retrocesse mestamente in seconda divisione, tornando fra i grandi solo nel 1976 guidati in panchina dal player manager Johnny Giles. E se in questo periodo esiste un giocatore che ha incarnato benissimo lo spirito di questa terra, il perfetto assioma fra Black Country e calcio inglese, quello è senza dubbio Tony Brown. Antony all’anagrafe di Oldham, dove nasce nell’ottobre del 1942. Introverso e gran lavoratore, deve convivere con una particolare forma d’asma. Non il massimo per chi è costretto a respirare nella cintura urbana, grigia e umida di Manchester. Ma a quattordici anni, quando ancora non ha sviluppato i suoi baffi da pirata dei sette mari, i consulti medici lo incoraggiano e lo indirizzano verso l’attività sportiva. E il problema tende rapidamente a scomparire. Nelle formazioni giovanili scolastiche si guadagna l’attenzione dei maggiori club del circondario, prima di tutti quelle del Manchester City. Ma lui a differenza di Jimmy Grimble, tifa per l’altra squadra della città, lo United, e decide di prendere la strada verso Old Trafford. Il palcoscenico dell’immenso teatro che gli si para innanzi, è calcato da troppe stelle, Tony non riuscirà a inserirsi bene, e allora arriva il provino con il WBA. Un incontro fortunato e decisivo per entrambi. Nascerà un amore assolutamente ricambiato a livello umano, mentre dal lato prettamente tecnico nascerà una mezzala agile ed estremamente prolifica, che dal dischetto si dimostra un’autentica sentenza. Spettacolare il goal messo a segno in una partita persa contro lo Sheffield Wednesday in FA Cup, quando da 35 metri gira al volo alle spalle del portiere della nazionale inglese Ron Springett. Meno bello ma sicuramente più pesante quello infilato alla squadra della sua città, l’Oldham, che varrà la promozione dei Baggies in First Division nel 1976. Impossibile non ricordare anche nel 1974 farà il suo esordio nel WBA Bryan Robson, “Captain Marvel”, con molta probabilità il miglior giocatore inglese degli anni '80. Leader carismatico, grande trascinatore, un giocatore di impareggiabile impegno e determinazione dotato di buona tecnica. Devastante quando portava il pressing, così come, quando sfruttando il suo piede dolce lanciava i compagni con passaggi sontuosi. "Robbo", un formidabile "ruba palloni". Nei suoi confronti si usava spesso questa frase: "C'mon Robbo, win it for us". Con i Baggies segnerà quaranta reti in sette anni. Lì lascerà nel 1981 per approdare in un mediocre Manchester United, per una cifra vicina ai 2,7 milioni di sterline. Sono gli anni degli ultimi squilli di gloria. Nel 1978 Big Ron Atkinson raggiunge le semifinali di FA Cup, ma dove il frizzante Ipswich Town di Bobby Robson estromette i baggies dalla finale.Per un club del livello del WBA una delle notti più belle arrivò nel dicembre del 1978, all'inizio di un inverno gelido che alla fine avrebbe privato il WBA del trofeo che quel lato celestiale di arguzia, verve e genio avrebbe meritato. Negli ottavi della Coppa UEFA a The Hawtorns arrivò il Valencia, ampiamente riconosciuto come una delle migliori squadre d'Europa e in quella stagione, schierava il regista della Germania Ovest Rainer Bonhof oltre, cosa più importante, l'attaccante Mario Kempes, il marcatore emblematico nella vittoria dell’Argentina in quella grandinata di telescriventi alla Coppa del Mondo di quell'estate. A Valencia Laurie Cunningham oscurò Kempes, e alla fine uscì un precario 1-1 A The Hawthorns, Tony Brown segnò un rigore nel primo tempo, vennero annullati altri due goal, poi Cyrille Regis colpirà un palo, e subito dopo Tony Godden salvò il risultato parando un calcio di punizione. Laurie Cunningham languido ma fulmineo metterà in mezzo per l'accorrente Tony Brown che fattosi il giusto spazio colse il cross perfetto del compagno e la palla finirà nell'angolo più lontano della rete. Per usare le parole del commentatore Hugh Johns: "Questo è quello che serviva!"Poi, un lento inesorabile declino, con effimeri successi, e qualche presenza a Wembley per i play off di categoria, Premier sfiorate o subito perdute. Se per ipotesi Bryan Robson avesse sognato un degno erede nel cuore del centrocampo forse potrebbe rivedersi per qualche misura in Graham Dorrans, che Tony Mombray portò a West Bromwich nel 2008. Un ragazzo di Glasgow, composto, creativo, combattivo e coerente che guidato da Roberto di Matteo conquistò la Premier League ma durerà poco. The Lord's My Shepherd… we are Albion.





MIO FRATELLO E' FIGLIO UNICO

  Nella Taranto specchiata fra il Mar Piccolo e il Mar Grande come una donna antica e fiera ci sono tute da lavoro e maglie rossoblù appese ...