Donne, un affare di cuore. C’è chi afferma che ogni tanto gli zoccoli del cavallo di Re Carlo II riecheggiano solenni lungo King’s Road, la strada dell’elegante quartiere di Chelsea a cui lui ha dato il nome perché l’attraversava spedito per andare a raggiungere la sua amante in un rifugio segreto. Nel XVII secolo era solo una modesta strada di campagna con un piccolo villaggio di pescatori che nei secoli si è trasformato diventando il quartiere simbolo dell'aristocrazia londinese. Poco più di due chilometri che separano il massimo della raffinatezza, da lunghe teorie di case popolari. Per anni punto di riferimento di artisti, intellettuali e scrittori che trasformarono Chelsea in uno dei primi centri bohémienne europei. La lista dei residenti illustri è incredibilmente lunga e citare ogni singolo nome sarebbe follia, però senza dubbio vale la pena ricordare personaggi come Oscar Wilde, George e T.S. Eliot, Agatha Christie, Jonathan Swift e Mary Shelley. Qui, Mary Quant lanciò dal suo negozietto tutt'ora in loco la moda della minigonna. Qui, dove se volete iniziare una passeggiata vi conviene partire da Sloan Square e scivolare accompagnati in sincronica sequenza dalla cortina di palazzi in mattoni rossi e stucco bianco fra boutique, caffè, ristoranti e negozi di antiquariato. Alla fine, troverete il vecchio Bridge, che tanto vecchio non è più e nemmeno lo stesso di tanti anni fa. Oggi è uno stadio moderno, rivoluzionato, anche strutturalmente da quello degli anni Settanta territorio di caccia dei temibili “Headhunters” sgusciati fuori dal loro covo naturale di gradoni denominato “Shed”. Ovviamente non è nemmeno quello delle origini, quando rischiò addirittura di scomparire quando per poco l’impianto rischiò di finire alla Great Western Railway, la quale, necessitava di uno spazio per costruire un deposito da utilizzare come rimessa di carbone. Nel 1970, il Chelsea non aveva ancora vinto la FA Cup. Era diventato campione d’Inghilterra, è vero, sotto la guida di Ted Drake ma la coppa era sempre sfuggita come tre anni addietro, nel 1967 quando nella “Cockney Cup Final” il Tottenham si era imposto sui blues per 2-1. La finale del 1970 il Chelsea se l’era guadagnata proprio in casa degli Spurs, il 14 marzo, travolgendo per 5-1 il Watford con una doppietta di Peter Houseman, i centri di un purissimo “east enders" come David Webb, poi Peter Osgood e Ian Hutchinson. Quella era la squadra di Dave Sexton, il Chelsea di quel quasi commovente blu privo di strane marchette e orpelli vari recante solo il leone rampante del Conte di Cadogan, con le due stelline di contorno, il Chelsea dei primi "seventie's" da associare per mutualità e situazionismo a "Bridge over Troubled Water" di Simon & Garfunkel, il Chelsea fatto di capelli al vento, aria sbarazzina e qualche bagordo di troppo. Sexton nativo di Islington ed ex manager dell’Orient, figlio di un pugile e cresciuto secondo educazione gesuita era subentrato a Tommy Docherty all’inizio della stagione 1967/68 (dopo la breve parentesi di Ron Stuart) e si ritrovò fra le mani la patata bollente, vale a dire il George Best di Windsor, Peter Leslie Osgood: “The King of Stamford Bridge”. Un predestinato, visto che a 17 anni firmerà per la squadra giovanile del Chelsea e al suo debutto in Coppa di Lega, sarà subito decisivo realizzando una doppietta. Calciatore dalle basette inconfondibili, geniale e imprevedibile tanto in campo e nella vita quotidiana, quando per esempio pensò bene di fare scalpore infilandosi una t-shirt indossata all’epoca dalla star del cinema Raquel Welch con la scritta “I scored with Osgood”, a conferma che il buon vecchio “Wizard of Os” non ci sapeva fare solamente con il pallone. Quello con il manager fu un rapporto complicato, ma è certo che non era l’unico problemino per Sexton che doveva tenere a bada anche gli amichetti di Ossie, gente come Alan Hudson e Charlie Cook, assoluti maestri del controllo della sfera, oltre a ragguardevoli scorribande notturne. Ma alla fine, bevute, donne e auto veloci non riuscirono a rovinare del tutto lo stile di gioco di quella squadra, talvolta indolente, anzi l'odore caprino in qualche modo aiuterà le manovre offensive. A difendere le “capienti” porte di Stamford Bridge, c’era Peter “The Cat” Bonetti, vent’anni al servizio alla causa con 729 presenze totali. Approdò ai blues nel 1958 dopo che la madre inviò una lettera alla dirigenza del club chiedendo di valutare attentamente le qualità del proprio figlio e di concedergli almeno una chance. Di lui disse una volta Pelè: “I tre migliori portieri che abbia mai visto sono Gordon Banks, Lev Yaschin e Peter Bonetti”. Davanti la spina dorsale, formata dal difensore Ron "Chopper" Harris, uno rimasto sempre all'altezza del suo nome negli interventi con in mezzo al campo Terry Venebles e John Hollins a creare geometrie offensive per quelli là davanti. Ci sarebbe da aggiungere che l’avversario di quel Chelsea nella finale di FA Cup di quella stagione era il Leeds United di Don Revie, altro gruppo di raccomandabili elementi da Cayenna che in semifinale avevano avuto bisogno di tre partite per avere la meglio sul Manchester United. Per pura nota di cronaca nessuno dei due club aveva mai vinto il trofeo, il cui atto conclusivo a causa del mondiale messicano alle porte, la federazione decise di giocarlo in largo anticipo rispetto alle date classiche fissando l’appuntamento per l’11 aprile. Fatto sta che il dolce manto erboso sotto le due torri si presentò in pessime condizioni a causa della presenza fino a qualche giorno prima della Horse of the Year Show - noto anche come HOYS ossia la manifestazione culmine degli eventi equestri britannici che aveva reso il terreno una distesa sabbiosa, non certo usuale per l’evento più atteso della stagione calcistica inglese. "Jack" Charlton portò in vantaggio il Leeds con un colpo di testa, sul quale McCradie e Harris non riuscirono a intervenire sorpresi dal mancato rimbalzo della palla. Il pari del Chelsea avvenne in maniera altrettanto strampalata, allorché un tiro da fuori aerea di Houseman non venne trattenuto dal portiere Gary Sprake che si lasciò sfuggire la sfera per l’1-1. Finale incandescente con gli Yorkshiremen in vantaggio a sei dal termine grazie a Mick Jones, e definitivo pareggio di Hutchinson due minuti dopo. Un Wembley così disastrato non si era mai visto. Giocare la ripetizione poteva veramente creare grossi problemi, e così per la prima volta dal 1923 si decise che la finale di FA Cup si sarebbe dovuta disputare in uno stadio diverso. La scelta ricadde sull’Old Trafford di Manchester. E furono 26,49 i milioni di spettatori seduti davanti alla televisione il 29 aprile 1970 per assistere al replay tra Chelsea e Leeds, un risultato che ha fatto entrare l’evento nella top ten dei programmi più seguiti nella storia della BBC, dietro solamente alla finale di coppa del mondo del 1966. Ad arbitrare l’incontro, il quarantasettenne Eric Jennings da Stourbridge che anni dopo dichiarò che, se quella partita si fosse giocata in tempi più moderni non sarebbero bastati sei cartellini rossi e venti gialli per arginare "l'animus pugnandi" profuso dalle due formazioni. Di quell’incontro al di là delle scintille in campo, del calcione di Ron Harris all’ ala scozzese Eddie Gray, di un rapido scambio di pugni fra Norman Hunter e Ian Hutchinson, si ricorda la serata buia di Manchester e le calze gialle che il Chelsea decise di indossare in quell’occasione. Il club decise infatti di giocare la replica con i calzettoni gialli della divisa da trasferta. E, dato il prestigio dell'occasione, si decise anche che, per completare il look che sarebbe stato visto da milioni di spettatori televisivi in diretta, i giocatori avrebbero indossato anche maglie con lo stemma giallo del club e pantaloncini con una striscia sempre gialla completata dai relativi numeri. Non è noto se l'ispirazione per queste modifiche relativamente piccole ma di grande importanza alla divisa del Chelsea sia venuta dall'interno del club o dal produttore di divise Umbro. Tuttavia, senz'altro è stata una scelta ispirata ed il risultato fu una delle divise più iconiche che la squadra abbia mai indossato. Oh, attenzione i bianchi di Leeds andarono in vantaggio per primi con Mick Jones nel primo tempo ma a poco meno di dieci dal termine un cross di Cooke imbeccò la testa di Osgood che in tuffo pareggiò il risultato della gara. Tempi supplementari, quindi, dove spunterà il personaggio che non ti aspetti, quel David Webb che talvolta appariva per caratteristiche caratteriali elemento fuori luogo nello spogliatoio dei blues. A innescarlo una rimessa laterale di Hutchinson al minuto 104 che la “giraffa” John (Jack) Charlton prolungò maldestramente anticipando l’uscita di David Harvey con la palla che colpita in qualche maniera dall’accorrente Webb finirà in rete regalando così la prima coppa d’Inghilterra al Chelsea, alzata al cielo da capitan Harris nella gremitissima tribuna del Trafford. Mi fermo qui tuttavia a dirla tutta l’anno seguente la squadra di Dave Sexton conquisterà anche l’alloro europeo vincendo la Coppa delle Coppe ad Atene contro il Real Madrid che sicuramente non era più quello di Alfredo De Stefano e del Colonello Puskas in ogni caso restava pur sempre la squadra più importante del continente. Anche in quell’occasione ci vollero due partite, anche in quell’occasione gli avversari in campo erano in bianco, anche in quell’occasione segnerà Peter Osgood. Ma quella non era certo una novità...
Blue is the colour.

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