Il sole a picco, la terra arida, il vento secco a smuovere
folate di polvere. Più che un campo da calcio il “Massajoli” assomigliava a una
prateria di confine dove non si vedeva arrivare nessuno come nel deserto dei
Tartari di Dino Buzzati. Eppure, qualcuno arriverà veramente, un campione del calcio. In paese non ci credevano, non ci volevano credere almeno fino a che
non lo videro con i loro occhi uscire da quella casamatta in calce grigia degli
spogliatoi. Un giocatore amato in Brasile ormai conosciutissimo nella
nostra serie A, dai folti capelli ricci, soprannominato "la formichina", colui che ebbe l'ardire di trafiggere Dino Zoff ai
mondiali argentini del 1978, aveva scelto, a 37
anni compiuti, un luogo minuscolo incastonato fra i rilievi dei Monti
Piacentini e il golfo di Salerno, dove il gioco del pallone era davvero quello delle poesie di Umberto Saba o di Pier Paolo Pasolini: divertimento, tanta passione
e ginocchia sbucciate. Sì, Dirceu José Guimarães, si era fermato ad
Eboli. In realtà prima di lui ad Eboli si era fermato “il Cristo” di Carlo Levi,
saggio scritto durante la sua “permanenza obbligata” in quei luoghi in cui racconta
la scoperta del mondo ancora arcaico dei contadini del Mezzogiorno. L’Ebolitana
del presidente Elio Presutto intorno alla fine degli anni Ottanta militava in
quello che all’epoca si chiamava Campionato Interregionale, una sorta di enorme frullatore, un
caleidoscopio di tutti gli angoli più remoti della provincia italiana, tra nobili decadute di cittadine capoluogo
opposte a paesi emergenti e arcigni, determinando spesso, tenacissime rivalità.
Ma il calcio stava diventando una scienza. Luigi Cavaliere uomo dinamico e
aitante, amante della sua squadra fu l’artefice dell’arrivo di Dirceu
che per le cronache diventerà il primo calciatore straniero a calcare i nostri campionati
dilettantistici. Il campione brasiliano, reduce da una mediocre esperienza
negli Stati Uniti, stava meditando il ritiro dal calcio, ma il dirigente dell’Ebolitana, già in buoni rapporti con lui ai tempi del Napoli, gli farà la
proposta stimolante o indecente (fate voi): “Josè la vedi questa cartolina? Sai
come si chiama questo paese che sembra un presepio? Ecco, io lo vorrei portare in
serie C, te la senti di aiutarmi?” Dirceu accetta, non gratis (cento milioni) allegando una richiesta: vuole in panchina l’amico brasiliano Rubens Galaxe. Zona alta, in un mondo calcistico ancora popolato da liberi boscaioli con licenza di far legna. Dirceu constaterà le
condizioni del terreno di gioco, dei mezzi a disposizioni. Farà arrivare a sue
spese le primissime sagome, quelle che si usano per allenarsi a tirare le
punizioni, apportò importanti migliorie agli spogliatoi e si accerterà che tutti
abbiano a disposizione borsoni, maglie, pantaloncini e tute sociali. Vengono
mobilitati dei giardinieri nel tentativo semiriusciuto di verdeggiare il campo, il quale verrà leggermente allargato, aumentando la capienza con l’installazione di una nuova tribuna. E la maglia da
trasferta dei biancoazzurri ebolitani diventerà gialloverde, proprio come quella della
Seleçao. Dirceu dispensò consigli a chiunque: “Vuoi sapere come si fa a tirare
forte come faccio io? Vedi, devi colpire il pallone dove c’è la valvola…” Insomma oltre che un piacere vederlo con il pallone fra i piedi, era una persona di eccellenti
doti umane. Eboli gli piaceva. Per le strade, in piazza, su viale Amendola,
tutti lo riconoscono e tutti lo fermano. Lui non si nega mai che sia per un
caffè o per una partita a carte. “Se potessi giocherei sempre” - lo diceva e
tutti e tutti gli credevano, perché, sulla soglia dei quaranta anni era sempre pronto
a calciare una palla ovunque glielo chiedessero. Figlio di una famiglia operaia
da bambino nella periferia di Curitiba sfondava finestre, rompeva vasi e sua mamma
Diva si arrabbiava di continuo. Nel 1968 esordirà
con la squadra della sua città fino a diventare un autentico zingaro del
pallone. Con L’Ebolitana non riuscirà ad agguantare l’agognata serie C2 ma la
sua classe aveva brillato, c’erano state delle reti meravigliose, come quella segnata
alla capolista Juve Stabia allenata dall’ex leggenda del Napoli Canè. Un
gioiellino su punizione, insaccato giusto sotto la curva ebolitana. Una piccola
magia se vogliamo, uno sgarbo alla prima della classe. Oppure quando in occasione
della gara con il Savoia ove il gemellaggio con la squadra biancoscudata
trasformò la partita in una giornata di festa, in mezzo a migliaia di tifosi che
riempirono lo stadio fece spellare le mani dagli applausi per l’ennesimo capolavoro balistico. Ma come ogni brasiliano, la saudade è troppo forte, per un periodo seppure breve se ne tornava a casa. E quando non c’era la squadra non girava, la calssifica si afflosciò, annullando le speranze di promozione. Qualcuno sbuffa: “S’è venuto a
pigliare i soldi a Eboli”. Non mistifichiamo nulla, lui persona cortese e affabile solo era chiaro che aveva accettato l’Ebolitana per dei soldi e dopo per cortesia nei confronti
del suo amico Cavaliere. Cercava un rifugio, aveva finalmente voglia di star tranquillo, lontano dalle
pressioni. D'altro canto si sapeva, in fondo si va allo stadio per soffrire e per
arrabbiarsi. Se ciò vale per l’Arsenal di Nick Hornby non volete che valga
per l’Ebolitana? Dopo due stagioni a
Eboli fu tempo di ritirarsi davvero, solo racconta un proverbio che se tu pensi di
fregare il destino alzandoti mezzora prima di lui, il destino si alzerà mezzora
prima di te e allora, per colpa di un banale incidente automobilistico Dirceu
perse la vita insieme a Pasquale Sazio, giocatore che si stava mettendo in luce
nell’Ebolitana e a cui fu proposto una tournée in Brasile. Eboli
non ha dimenticato. Nel 2001, quando venne inaugurato il nuovo stadio
cittadino, nessuno ebbe dubbi su quale nome dovesse essere inscritto sulla targa d'ingresso: José Guimarães Dirceu. Un
omaggio, non solo al campione, ma all’uomo che seppe far innamorare una città
intera del suo modo di vivere il calcio: semplice, umano e infinitamente
libero.

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