Ne sta arrivando un'altra. Più dolce. L’ennesima onda che bacia languida la riva. Ti viene voglia di toglierti le scarpe, di bagnarti i piedi, di farteli accarezzare da quell’acqua gelida. Ti viene voglia di chiudere gli occhi, di non sentire più i rumori del porto, le urla garrule dei gabbiani, il mormorio sommesso della gente che passa distratta intorno a te. Percezione di fantasmi. Quelli partiti e non più tornati, non più trovati. Quelli che dovevano arrivare a New York e invece il 14 aprile 1912 a bordo di un enorme transatlantico nero costruito nei cantieri navali Messrs di Belfast, 400 miglia a sudest della costa canadese si scontrò con un enorme iceberg: La vedetta Frederick Fleet lo vide solo quando era ormai a 500 metri di distanza… “Iceberg di prua, signore!” Il primo ufficiale William M. Murdoch ordinò: “Indietro a tutta forza...” La repentina virata a sinistra si rivelò inutile, trentasette secondi dopo l’avvistamento avvenne l’urto a prua, sulla fiancata destra della nave, sei dei sedici compartimenti stagni rimarranno danneggiati e a sei metri di profondità l’acqua incominciò a filtrare nella nave. Le vittime saranno oltre 1500. Freddo. Usciamo da quest’acqua che nemmeno lei è la stessa. Di cosa abbiamo bisogno, di certezze o di sogni? Forse entrambe le cose perchè è vero necessitiamo di un briciolo di sano squlibrio per creare una stella danzante per dirla con Nietzsche. E allora Southampton ci ammaliava con qualcosa di essenziale, una rasoiata di Occam in piena faccia, pratici terrazzamenti di ferro e cemento. “Ugly Inside” potremmo dire, brutti dentro, come l’ironica fanzine uscita nel 1990 per protestare contro l'ex presidente del club Rupert Lowe. Invece il Dell era un attestato di identità, ciò che serviva per affermare l’unicità di un luogo e di un culto. Il Dell era lo stadio dei santi, quelli che ora giocano sulle rive dell’Itchen, cercando la spiritualità delle origini ma che di santità e rispetto ne hanno sempre meno, come tutti del resto. Il Dell fu il primo stadio ad installare un impianto d’illuminazione permanente, la casa del Southampton FC per 103 anni. Il Dell con la sua tribuna scalena. Uno degli ultimi satrapi cui le concubine del calcio inglese si sono concesse. Investito, abbattuto da un complesso residenziale dove i condomini, in un esemplare gesto di memoria, fanno incidere accanto alle loro porte d’appartamento nomi che si perdono nel vento, ma che il vento nel suo ciclo di eterno ritorno fa annusare ancora. C’è anche una divinità fra questi: Mattew Le Tissier, pargolotto cicciuto nato in un isolotto della Manica. Coste troppo vicine, contaminate il carattere ne risente parecchio. Eppure, “Matt” non vi sfidava, lui non vi vedeva, non rispettava il sacro dei luoghi comuni, aveva la pancetta ma se ne frega, preferiva il pub al centro estetico, era mezzo francese e mezzo inglese con lo sguardo torvo dei pescatori di Guernsey, ha amato Southampton e non se ne andrà mai, era Amleto perché c’era del metodo nella sua follia, ed infine era Dio, solo un pochino più bravo con il piede destro. Il primo centrocampista a segnare cento goal in Premier League. Non è l’unico nome. Provate a suonare i campanelli a Bobby Stokes, Ted Bates, Danny Wallace o a Mick Channon. Non vi apriranno loro, ovvio, ma qualcuno disposto a raccontarvi della sua fede nei “Saints” e della storia di questo club lo troverete di sicuro. Fra il sacro e il profano. Vi diranno di un curato che fondò il St. Mary Church young men's (abbreviato in "YMA St Mary") che poi divenne semplicemente S. FC of Mary nel 1887-1888, prima di adottare il nome di Southampton St. Mary quando il club si unì alla Southern League nel 1894, finché dopo aver vinto il titolo nel 1897 fu ribattezzato semplicemente Southampton FC. Ma si, come no. Vi diranno anche che quel giorno faceva un gran caldo. Un’ondata di caldo anomalo che nel 1976 aveva colpito l’Inghilterra. Inconsueto come quel vinile di Jasper Carrott chiamato “Carrott in Notts” che accompagnò il Southampton a Wembley per la finale di FA Cup. Era il primo di maggio e la città era vuota. Letteralmente. Tutti a Londra. O tutti davanti alla TV. A colori o in bianco e nero. Anzi in bianco e rosso, non c’era alternativa. La squadra allenata da Lawrie McMenemy la stava per combinare grossa. McMenemy era uno del nord, di Gateshead, specchio fedele della Newcastle che si affaccia sul Tyne. Ha il naso grosso e un sorriso convinto. Arriva dal Grimsby Town, dove ha vinto un campionato di Quarta Divisione. Al vecchio Dell troverà un club di seconda Divisione formato da un gruppo non giovanissimo. Tuttavia, il destino aveva in serbo un dono: la coppa d’argento, posata sul palco reale davanti alla Regina. Lucente come quelle maglie gialle indossate quel pomeriggio di primavera dai Santi. Il Manchester United aveva il dente avvelenato. Retrocessione infausta da smaltire patita due anni prima e per ironia della sorte dettata dall’ex Dennis Law davanti ai muri piangenti di Old Trafford. Una vergogna che andava vendicata con vittoria. Tommy Docherty manager scozzese dei red devils lo sapeva e non doveva sbagliare. Centomila. Ian Turner portiere del Southampton lì vede li sente e si esalta. Quando l’orologio di Wembley decide di non scorrere il santo è solo lui. Para tutto, gioca la partita della sua vita e infonde fiducia alla squadra. Qualcuno alla BBC alla vigilia disse che il risultato non poteva essere che in doppia cifra a favore di quelli di Manchester. Oracoli falsi. Quando il bus del Southampton penetrò a fatica fra due ali di tifosi entusiasti nel cuore un tifoso involontariamente venne colpito da un fianco del mezzo e tutti i giocatori si erano preoccupati quando entrarono negli spogliatoi. Peter Rodrigues il capitano tornerà fuori a chiedere informazioni. Lo rassicurano, rientra. Inconfondibile quel gallese dal capello brizzolato, un leggero riporto e gli occhi azzurri sopra baffi da ufficiale di dogana. Mike Channon gli si avvicinò prima della rituale presentazione alle autorità. Channon è un capelluto centrocampista, fin troppo appassionato alle corse di cavalli. Gli dice che lui non avrebbe scommesso un penny sulla vittoria del Southampton, ma di contro afferma anche che chi lo ha fatto non ha sbagliato. Trattasi del consueto ossimoro da ippodromo, da chi non dice mai di aver giocato un brocco 100 contro 1 finché non vince e cerca di dimostrare a tutti la sua competenza. In quella squadra c’era anche “Ossie” Peter Osgood lo stravagante ex Chelsea approdato a Southampton da un paio di stagioni. C’era soprattutto l’autore della rete decisiva. Diagonale secco e preciso. Tagliente come una lama nel burro: Bobby Stokes. Quando la partita si stava incanalando verso il pareggio, che già sarebbe apparso una mezza sorpresa, Jimmy McCalliog intelligente e versatile centrocampista serve Bobby sulla linea di confine e lui infila la palla dietro Alex Stepney, laggiù, nell'angolo più lontano dove le capienti reti di Wembley sembravano inghiottire la sfera bianca come la luna. Il Southampton aveva vinto la sua FA Cup, per un momento tutto si era unito, terra, fiumi, mari e oceani.
venerdì 24 ottobre 2025
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