Vi ricordate le riprese
televisive durante la finale del Mondiale 1982 fra Italia e Germania Ovest a Madrid? Beh, se aguzzate
lo sguardo appare ogni tanto uno striscione appeso alle tribune del Santiago Bernabeu con la scritta Pieve al Toppo. Ecco, lo avevano ricavato dei tifosi dell’Arezzo,
non solo entusiasti di essere lì per sperare di assistere al trionfo degli
azzurri di Bearzot ma anche già felici di ritrovarsi nella stagione a venire la
loro squadra locale in una serie B dai grandi nomi e dai grandi palcoscenici. L’Arezzo sarebbe
sceso in campo a San Siro, all’Olimpico e al Dall'Ara per incrociare il Milan, la
Lazio e il Bologna, tutte realtà scudettate e non solo. Insomma, a posteriori fu una doppia,
enorme, soddisfazione. E magari qualcuna di quelle persone più giovani le avrò pure incontrate qualche volta andando a ballare al mitico Tartana, la discoteca accanto alla piscina, un locale poliedrico nel quale trovava posto sia l'adoloscente che il genitore, per la molteplicità delle sale, da quella dedicata al liscio, al valzer, al Tango alla pura Discomusic condita ogni tanto anche da alcuni artisti tipo la Steve Rogers Band con la famosa "Alzati la gonna" fra balli e sballi. Eppure, Arezzo a guardarla
arrivando dalla Superstrada (che poi di "Super" queste strade non ho mai capito cosa hanno) sembra quasi nascondersi nel gargarozzo della Toscana.
“Basterebbe Arezzo alla gloria d’Italia” è la citazione di Giosuè
Carducci, per un'autentica "città del silenzio" che enuncia il suo dialetto in una sorta di etrusco paludato dell’alto Tevere, un “cuscinetto” di peculiarità
fonetiche e lessicali, si direbbe una lingua di transizione, che lo distingue
dagli altri dialetti regionali addirittura dotandosi di venature corrotte da un curioso francesismo dovuto a vicissitudini storiche. L'altissimo
campanile del Duomo a sezione esagonale, spunta dietro pallidi campi verdi di
ulivi e, sempre viste in lontananza, appaiono case bianche con i tetti di color
ruggine coperti in autunno da una nebbia assonnata, densa come lo zucchero
filato, che piano piano scende, cedendo ai raggi luminosi del sole. Città di Giostra e fieramente ghibellina, con quel cavallino nero rampante e intrepido a fargli
da stemma tutelare. Arezzo delle botteghe laboriose dove pare non sia abbia
troppo tempo per guardarsi intorno e compiacersi; Arezzo con le cartoline color
miele esposte fuori dai negozi. Nella Piazza Grande pendente, da secoli sta, un
po’ inclinato come la piazza stessa, un pozzo di pietra, oggi un luogo
d’incontro e sfondo per le foto di rito dei turisti. Palazzi scaleni, altezze
diverse, edifici robusti sembrano affondare in un morbido lastrico e le stradine
del centro, un po’ come i ponti veneziani, salgono e scendono e passeggiando
lungo di esse si scopre non solo quello che si trova dietro un angolo ma anche
dietro una salita. Fu un peccato sporcare quella maglia con uno sponsor. Parlo dell’Arezzo
che vinse la Coppa Italia “semiprof” del 1981 battendo in finale la Ternana, aveva
una divisa meravigliosa, completamente amaranto raschiata da tre leggerissimi
corridoi bianchi sul cui lato destro con estrema cura e precisone venne
cucita la coccarda tricolore del suddetto successo. Ma il calcio frastornato dal processo giudiziario sulle scommesse clandestine stava
cambiando pelle e l’apertura alle sponsorizzazioni avrebbe significato entrate
fresche, soldi importanti in qualunque categoria dalla Serie A alla terza categoria. L’Arezzo dell'indimenticato presidente Narciso Terziani strinse un accordo con il molino/pastificio "Ponte", sponda destra del Tevere in quel di Ponte San Giovanni, quartiere Pratovecchio provincia di Perugia che in quei primi anni Ottanta aveva raggiunto una
notevole fama a livello nazionale. Nato nel 1938, quindici anni dopo la fondazione dell'Arezzo, Terziani da Pieve a Maiano era
diventato un imprenditore di successo nel comparto orafo, un "omone" dal carattere
forte e dall’animo buono con la passione del calcio, tanto che nell’aprile 1979,
quando se ne presentò l’occasione, acquistò l’Arezzo dopo la gestione Geppetti
e per prima cosa pagò gli stipendi arretrati ai giocatori, rimettendo in sesto
i bilanci societari, che in quel periodo avevano avuto notevoli problemi, instillando inevitabilmente una ventata di entusiasmo ed ambizione. Si
capì immediatamente che le cose sarebbero cambiate a breve, c’era, d’altro canto, la volontà di riconquistare la serie cadetta perduta sette anni prima e per
farlo coinvolse anche altri imprenditori locali; già nella stagione 79/80,
sotto la guida di Pierino Cucchi, fece diversi investimenti portando (e
riportando) in amaranto giocatori importanti da Adriano Malisan il biondo numero
10 dalla vaga somiglianza al tedesco Bernd Schuster ed il figliol prodigo
Menchino Neri, baffuto centrocampista dai piedi buoni. La squadra disputò una stagione positiva conclusa
al sesto posto del girone. Poi nella stagione 1980/81 Terziani decise di dare la
svolta tanto attesa e così, dapprima esonerò Cucchi, che non era mai riuscito a
legare troppo con lo spogliatoio e fece sedere in panchina l’ex interista Antonio
Valentin Angelillo che vincerà quella Coppa Italia di C, primo trofeo di sempre
della storia amaranto e, nella stagione successiva, guidò l’Arezzo nella grande
cavalcata verso la serie B. Era l’Arezzo dello stadio Comunale imballato da
15000 tifosi entusiasti assiepati nella gradinate sotto la lunga teoria
pubblicitaria della Lebole, l’azienda di Castiglion Fibocchi all’epoca grande
marchio dell’abbigliamento. Un sogno cucito con i sacrifici. E il colosso della
moda era nato proprio dalle mani e dalla mente di una donna aretina, Caterina Bianchi,
cui si deve l’intuizione di trasformare il commercio di stoffe e tessuti dei
genitori in laboratorio sartoriale capace di intercettare i bisogni di “un'Italia
affamata di nuovo”, come diceva lei. L’avvento sulla panchina di Angelillo
alla guida degli amaranto significherà passione sfrenata. Un amore di quelli coinvolgenti,
in grado di non farti pensare ad altro ventiquattro ore al giorno, sette giorni
su sette. La squadra giocava un calcio pratico, soprattutto aveva la capacità di
cercarsi, di trovarsi a memoria, con una diga difensiva che partiva da Pino Pellicanò fra i
pali, gestita splendidamente da un leader carismatico come Giuseppe Zandonà che riusciva ad esaltare e dare tranquillità a tutto il reparto, da Emilio Doveri
ad Alessandro Zanin, con un centrocampo dove alle geometrie del già citato
Malisan si sommavano le corse di Andrea Mangoni, l’estro di Giovanni Botteghi e
Menichino Neri oltre a un attacco prolifico composto da Mauro Vittiglio che svolgeva il cosiddetto lavoro
sporco e dal bomber implacabile, Tullio Gritti finalizzatore con abilità spesso
sorprendenti. Gli aretini, presero a chiamarlo "Tullio Volante". Gritti, milanese amattisimo, fu davvero epicentro di un terremoto di passioni, un centravanti aggressivo d'indole e rapace
dell’area di rigore, attaccava ogni pallone esaltandosi nel gioco aereo nonostante non fosse particolarmente alto ma aveva buon tempismo il che lo rendeva pericoloso nei colpi
di testa. Grazie alle sue doti Gritti divenne pedina ideale per il gioco di Angelillo che cercava sempre di
metterlo in condizione di calciare in porta talvolta da perfetto circense, in acrobazia, tanto che ancora oggi a distanza di oltre quarant'anni Tullio Gritti
rappresenta sicuramente il centravanti più forte nella storia del club e il suo trasferimento al Brescia mosse più di un mugugno. Ad ogni modo quel campionato filò liscio per la sua gran parte, la squadra resterà
salda in testa alla classifica, vittorie in casa e pareggi in trasferta almeno durante
il girone di andata, in perfetta media inglese come si usava dire allora. Certo
nel ritorno qualche pari di troppo parve mettere un pochino di sale alla coda
del torneo ma poi gli ultimi tre successi consecutivi sistemarono la pratica e
assegnando il primo posto finale agli amaranto. Il degno epilogo di una
stagione da evidenziatore si ebbe l’ultima e "intima" domenica di maggio in una
Arezzo dal cielo terso e dai gerani sui balconi. La settimana precedente la
squadra aveva espugnato Latina per 2-0 scortata da 64 pullman di sostenitori,
si avete capito bene 64, e al Comunale (oh, ancora senza curva sud) la gente
poté programmare la festa. La Paganese, arrivata ad Arezzo già salva e
tranquilla della permanenza in cadetteria, si prestò docilmente al ruolo di
sparring partner: 4-1.
sabato 18 ottobre 2025
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