venerdì 28 novembre 2025

LASSU' AL NORD

 


Occorre solo appoggiare un pallone sulle acque di un ruscello e lasciarlo trasportare dalla corrente. Poco importa dove andrà a finire. È come il destino, possiamo impegnarci quanto vogliamo a progettare la nostra vita ma alla fine la vita ti porta dove vuole lei. Le Shetland sono anfratti dal fascino aspro e quasi inaccessibile, meravigliosamente sperdute laddove l'Oceano Atlantico incontra il Mare del Nord fra limpidi fiordi saldati a brughiere sterminate ricoperte d’erica, fino alle maestose scogliere scolpite dall’erosione millenaria di vento, acqua e sabbia. È probabile che nei nostri desideri ci sia un posto in cui vorremmo un giorno rifugiarci ad attendere in serenità l’ultimo tramonto. Nei miei c’è l’immagine di un pinzuto faro battuto dalle raffiche, una casetta con una vetrata dagli infissi bianchi rigata di pioggia e un volo lontano di gabbiani. Ora, sia lodato Sant'Andrea, diciamo subito che le Shetland hanno un loro campionato e una loro squadra "nazionale" che ogni anno affronta le altre isole del Regno nei cosiddetti Island Games. Tuttavia, nella capitale Lerwick, alloggiata sul dorso dell’isola di Mainland, dove si aspettano cartocci fumanti di pesce e il ventre è tassellato da edifici in pietra dai tetti grigi e da file di barche ormeggiate o lasciate ordinatamente in secca, un giorno ebbero un’idea. D’altra parte, ogni tanto qualcosa devi pur inventarti se non vuoi trascorrere le ore a guardare il solito elmo vichingo appeso alla parete o una numerosa famiglia di Puffin in paziente attesa del giusto flusso d'aria. E allora, onde evitare che solo la città più importante (oh, sia chiaro, importante è un eufemismo, all’ultimo censimento l'ufficio anagrafe ha scritto 6830) potesse divertirsi con il calcio nel ridente, verdissimo, prato del Gilbertson Park, hanno creato la Parish Cup. In pratica sarebbe la Coppa delle Parrocchie, 28 per la precisione. La geografia etnico/politica ci dice che le Shetland sono un arcipelago composto da un mosaico di isole disposte intorno alle tre principali, scozzesi ma non troppo, norvegesi quel tanto che basta, soprattutto non sono mai uguali a sé stesse a causa dell’azione costante dei flutti e delle bufere. La Parish Cup fu presentata dalla Shetland FA per la prima volta nel 1952 ed è disputata da empirici club fondati fuori dalla città di Lerwick. Troverete nomi come Whiteness, Weisdale, Burra, Yell, Cunningsburgh, Southend e via discorrendo. La competizione pare fu istituita per promuovere il calcio e lo spirito di comunità nelle zone rurali delle Shetland. Ad ogni modo il torneo si gioca nell’arco di una settimana a seconda di quante “parrocchie” si iscrivono e tutte le partite vengono disputate fra i muretti del Gilbertson, l’unico campo regolamentare con un bel chiosco di scotch pie, ossia una piccola torta di carne di montone macinata. Quindi traghetto, partita, una pinta, anzi probabilmente qualcuna in più, e subito si torna a casa quando vieni eliminato. L’ultimo successo è andato all’isola di Southend grazie alla doppietta del capitano Leighton Flaws che lavora in un lanificio e dice timidamente di tifare Aberdeen. E poi c’è lei, ogni anno dal 1908: La Milne Cup. Ininterrottamente, appassionatamente, parentesi di guerra escluse. Una volta a Lerwick, una volta a Kirkwall, si mette in palio questo trofeo conteso da ormai 113 anni dalle due isole più importanti spuntate un pugno di miglia nautiche al largo della Scozia: Shetland e Orkney, luoghi magici dove, come detto ampiamente in precedenza, al Signore obiettivamente è scappata la mano e la natura arriva fin sulla porta di casa. Un derby, una trasferta in nave a testa, con un occhio vigile sui voraci gabbiani che tenteranno impunemente di soffiare qualche pezzetto di fish and chips. L’idea fu di un certo Alex Milne, imprenditore baffuto nonché presidente dell’Aberdeen (non a caso la coppa porta il suo nome) che favorì l’evoluzione del football nelle isole insieme ai locali Harry Johnston e Jackie Dearness. A ben vedere si contano partite addirittura dal 6 ottobre del 1875 quando sulle pagine dell’Orkney Herald apparve un trafiletto in cui si comunicava luogo e orario del primo confronto fra le due compagini che inizialmente portavano il nome delle città più importanti. Tuttavia, come detto, è solo dal 1908 che possiamo considerare l’albo d’oro su cui spiccano 56 successi delle Shetland contro i 36 delle Orkney a cui vanno aggiunti 6 pareggi. Capocannonieri storici: Jim Donaldson per le isole Shetland e Bert Sinclair per le isole Orkney. Oggi le due formazioni sono iscritte alla North Caledonian League ma la Milne Cup prosegue, imperterrita, tra campi senza tribune, reti spazzate dal vento, volti rubizzi, birre artigianali, musica di violini e pescherecci dondolanti che sembrano dormire ancorati ai rispettivi moli.

giovedì 13 novembre 2025

HENDON FOOTBALL CLUB

 


Erba alta, corvi, gradoni sbreccati, assi cigolanti. Superando le barriere divelte, sotto l’ormai precaria copertura della tribuna sul lato opposto della strada principale, si vedevano solo rifiuti. Fino alla bonifica del 2010 questo luogo era diventato riparo di fortuna, bivacco improvvisato. Strano a dirsi perché è una zona di Londra piuttosto benestante. Eppure, se vogliamo raccontare il pezzo più importante della storia dell’Hendon Football Club, dobbiamo per forza vedere in quella che fu la fatiscenza e l’abbandono di Clermont Road il bicchiere mezzo pieno. In fondo nutro attrazione per le rovine che il tempo dell’oblio inesorabilmente affligge, per la vegetazione incolta, per i muschi, le crepe. Dopo una certa età ti assomigliano. Londra sobborgo di Cricklewood, Borough of Barnet. Qui c’era la casa dell’Hendon FC che semplicemente prendeva il nome da una sua strada, Clermont Road, lunga, con tante casette dai comignoli svettanti a due passi dalla ferrovia. Hendon, si traduceva in senso di comunità. Nel libro quinto dell’Eneide di Virgilio, quando Enea indice dei giochi in onore del padre Anchise, abbiamo la suggestiva corsa delle navi. Ce n'è una che procede più decisa delle altre. Più spedita, più convinta. I suoi energici rematori battono tutti gli altri: "Possunt, quia posse videntur". Possono, perché pensano di farcela. Digressione non casuale, questo è il motto che si legge sotto l’emblema dell’Hendon, sotto l’agnello issante bandiera. E non poteva essere altrimenti visto che nel 1908 l’Hendon mosse i suoi primi passi, con il mistico nome di Christchurch Hampstead. Verdi ma non subito, Hendon ma in seguito. Occorre fare attenzione, se si soffia via un po’ di polvere, si fa una scoperta: l’esistenza di un suo omonimo ottocentesco fondato nel 1876, che però non ha niente a che vedere con quello del 1908. Clermont Road vide la luce il 18 settembre 1926 in un pareggio di FA Cup contro il Berkhamsted proprio nel giorno in cui verrà tolto il suffisso Hempstead. Dal secondo dopoguerra si raggiunse il connubio cromatico definitivo. Verde, il colore simbolo della rigenerazione. Sarà con questa tinta, listata di bianco, che l’Hendon FC conquisterà i maggiori successi, la squadra più vincente nel panorama della Non League di ogni epoca. Cinque volte a Wembley per la finale della FA Amateur Cup. La prima volta nel 1955 sconfitto 2-0 dal Bishop Auckland di fronte a 100000 spettatori, infine nel 1972 contro l’Enfield. In mezzo, altre vittorie su tutte quella del 1965, dove l'Hendon del capitano Bobby Cantwell fu descritto da un commentatore televisivo del Tyne Tees come "i ragazzi più brillanti del calcio del sud". In effetti la squadra stava vivendo la stagione di maggior successo nella sua storia e vantava cinque giocatori internazionali. John Swannell, Roy Sleap e David Hyde avevano tutti rappresentato l'Inghilterra amatoriale, John Evans aveva giocato per il Galles e Jimmy Quail per l'Irlanda del Nord.  E poi ci sarebbe una foto in bianco e nero, con una targhetta su cui è incisa una data precisa: 5 gennaio 1974. Era stata scattata al St. James’ Park di Newcastle, durante la partita valida per il terzo turno di FA Cup di quella stagione. Si vede in primo piano un giocatore in piena area di rigore nell’atto immediatamente successivo al tiro in porta. Ha il naso a punta come un moschettiere da operetta e il ciuffo pendente a destra. Su di lui tenta un’uscita Ian McFaul, il portiere delle Magpies, mentre un difensore in maglia bianconera rinviene inutilmente solo per constatare l’inesorabile marcatura. La storia dell’Hendon in Coppa d’Inghilterra forse è tutta in quel technicolor anni Settanta, che una ventina di anni fa faceva ancora bella mostra di sé, appeso nella sala riunioni del club house di Clermont Road. Uno scatto fortunato, "l’attimo fuggente" in cui Rodney Haider, per tutti Rod, siglerà uno storico pareggio esterno in casa del Newcastle di Malcom MacDonald davanti a una folla di oltre trentamila persone. Tuttavia, non ci fu un altro “Hereford” per il Newcastle. Il 9 di gennaio si giocò la ripetizione in una giornata grigissima di freddo pungente, su un terreno reso pesante dalla pioggia dei giorni precedenti e davanti alle telecamere della BBC, che forse pregustava un'altra sorpresa da mostrare agli sportivi inglesi. Solo che Peter Deadman lascerà troppo spazio a MacDonald che colpirà subito con un gran tiro da fuori area sul quale John Swannell in sgargiante divisa rossa non riuscì a opporsi. Nel secondo tempo Terry Hibbitt s’inventò un goal da cineteca, e poi Mc Dermott realizzò magistralmente un calcio di rigore causato da un fallo di mano del terzino Gary Hand. Infine, in chiusura arriverà il centro di John Tudor. Poker servito e il piccolo/grande Hendon lentamente sparirà dalle cronache.


NDC. Nel 1972 l'Hendon vincerà la Coppa "Ottorino Barassi", il trofeo di lega italo inglese per squadre dilettanti, in finale sconfissero l'Unione Valdinievole, squadra di Monsummano Terme in provincia di Pistoia: 2-0 a Londra, 1-1 in Italia.







venerdì 7 novembre 2025

LE FALKLAND DEL FOOTBALL

 


Un frammento di pace prima della guerra. Nel 1976, in un clima di collaborazione tra Argentina e Regno Unito, un gruppo di lavoratori argentini giocò una storica partita di calcio nelle isole contese. Alle Isole Malvinas – o Falkland, secondo la denominazione britannica – la scintilla della palla di cuoio, rotolerà verso la fine dell’Ottocento, portata dagli equipaggi inglesi che facevano scalo nell’Atlantico del Sud. Per gli isolani, come per tanti porti del Commonwealth, quella sfera divenne presto una consuetudine, un modo per misurarsi, per occupare il tempo incastrato fra giornate lunghissime o brevissime e soprattutto per riconoscersi come comunità. Il primo club ufficiale in quegli scogli quasi dimenticati da Dio ma non dai governi, nacque nel 1916: lo Stanley FC. Tuttavia, vuoi la distanza, il clima costantemente avverso e la scarsità di abitanti rispetto ai pinguini e alle oche degli stagni di acqua dolce, rese sempre molto complicato organizzare incontri seppure modesti. L’etichetta, quantomeno accettabile, di campionato arriverà poco dopo il termine del secondo conflitto mondiale, durante una animata riunione col sottofondo gorgogliante di acqua lasciata in infusione insieme a zucchero, scorze di limone, rum, un buon punch insomma, condito a piacere da frutta tagliata a pezzi. Era il marzo del 1947 e fu così istituita la Falkland Islands Football League (FIFL), un piccolo organismo federativo che cercò, con le risorse minime di cui disponeva, di mantenere viva una tradizione che univa militari britannici, civili, a varia umanità di passaggio. L’incontro più famoso avvenne nel 1963 quando lo Stanley di Don Clarke e Tom Perry (nella foto) guidarono la squadra locale fino alla storica sfida contro lo yacht reale “Britannia” davanti al Duca di Edimburgo. L’etichetta, quantomeno accettabile, di campionato arriverà nell’immediato secondo dopoguerra dopo aver lasciato in infusione zucchero, scorze di limone, rum, un punch insomma, condito a piacere da frutta tagliata a pezzi. Insomma, il pallone come passione stava prendendo piede pure in questo arcipelago distante da Londra in linea d’aria circa tredicimila miglia, dentro un territorio che ancora oggi non raggiunge, e difficilmente potrebbe farcela date le condizioni logistiche, le 3.500 anime. Diciamo che il calcio sopravvisse alla stregua di un rituale intimo, più che come uno spettacolo vero e proprio. Ma nel 1976, in un momento in cui i rapporti tra Argentina e Regno Unito erano sorprendentemente cordiali, si verificò un episodio unico: la prima e unica gara giocata tra una squadra argentina e una locale nelle isole stesse. Il lemma si ricaverà attraverso un piccolo torneo delimitato da un perimetro facilmente steccabile in recinto rettangolare: quattro squadre, lo Stanley FC, il Royal Marine Detachment (ossia il contingente della Marina britannica di stanza nelle isole), la Construction Johnstones (impresa inglese che stava costruendo l’aeroporto di Mount Pleasant) e gli Argentinos de YPF (acronimo della compagnia petrolifera di Buenos Aires). Questi ultimi, in seguito a un accordo bilaterale furono incaricati di costruire serbatoi di carburante a Port Stanley (oppure Puerto Argentino, come volete voi). Gli operai argentini arrivarono in un ambiente isolato, gelido e monotono, dove routine militare e civile si confondevano in una tenace depressione abbastanza tediosa. Alcuni direbbero che la loro presenza latina porterà cacofonia, altri direbbero allegria, miscelando le due cose abbiamo una certa consapevolezza che portò sicuramente una ventata di novità: nei pochi locali, pub (off course) si comincerà a parlare il cosiddetto “lunfardo”, uno spagnolo più brillante foneticamente rispetto al castigliano d’origine, e ci si scambiava pacchetti di sigarette tanto per dare un tiro di fumo dal sapore diverso rispetto alle solite Winston o Pall Mall.  A quel punto si organizzarono delle partite di calcio. Non ci furono mai telecamere né cronisti, pochissime fotografie, scarsi i registri ufficiali. Eppure immaginiamo fu davvero qualcosa di epico. In quella coppa del 1976 la finale sarà disputata proprio dal vecchio Stanley FC contro gli operai argentini dell YPF. E vinsero questi ultimi per 2-1, rammenta Patrick Watts in un’intervista del 2007 al “Diario Deportivo Olé”. Watts è rimasta una figura storica di quel calcio nascosto dal mondo e non solo. Patrick Watts infatti non sarà soltanto il bomber e il capitano della selezione locale detta “Warrahs” – 100 presenze, 76 gol, oltre cinque anni da allenatore – ma era la voce più nota di “Radio Stanley”. Il suo destino si intreccerà  fatalmente con la storia nel modo più cruento: la notte del 2 aprile 1982, mentre le truppe argentine sbarcavano a sorpresa sulle isole, lui era di turno nella peculiare emittente radiofonica delle Falkland. Da Londra gli fu ordinato seccamente di restare in onda tutta la notte per informare la popolazione. Non c’era nessuna televisione e i telefoni sembravano quelli di un negozio di antiquariato, si girava ancora la manovella e poi occorreva parlare con la solita operatrice, impegnata a rifarsi le unghie, quasi sempre scocciata. Durante i lunghi 74 giorni del conflitto, Watts lavorò sotto stretto controllo dell'esercito argentino, affiancato da quattro civili, soltanto uno dei quali parlava inglese: “Era un bravo ragazzo, un antimilitarista e ci capivamo bene: decidevamo insieme cosa dire e cosa no. Se io non lo dicevo in inglese, lui non lo diceva in spagnolo. Diversa fu invece la relazione con l’ingegnere del suono: “Un uomo difficile, un amico di Videla, che gli ripeteva: Adesso abbiamo la fortuna di essere governati dai colonnelli così terremo lontani i comunisti. Il fatto era che alle Falklands non c’erano mai stati comunisti e nessuno probabilmente aveva neanche mai letto Marx”. Oggi, a distanza di più di mezzo secolo, quella finale dimenticata del 21 dicembre 1976 resta un taglio nell'anima a forma di sorriso, reperto simbolico di un’epoca in cui la politica non aveva ancora contaminato tutto. Per un giorno, sull’erba gelata di Port Stanley, argentini e inglesi si affrontarono non come nemici, ma come calciatori, inseguendo la stessa palla, con l'identico semplice sogno di tutti i ragazzi della stessa età che il mondo dimentica: giocare, invece di combattere stupidamente per un pezzo di terra.

sabato 1 novembre 2025

PLAY UP POMPEY

 


Portsmouth pianse il suo beniamino cantando "Play up Pompey, Just one more goal! Make tracks! What ho! Hallo! Hallo!!". Era il 9 novembre 1982, il giorno dei funerali di Jimmy Dickinson morto a soli cinquantasette anni. Con molta probabilità il più grande giocatore della storia del Portsmouth Football Club, per due volte consecutive campione d’Inghilterra allenato da Bob Jackson. Mai ammonito, mai espulso, insomma semplicemente, “Gentlemen Jim”. E quando la federazione obbligò i club a riammodernare gli stadi la sua faccia appuntita e sorridente sarà impressa sui nuovi sedili del Fratton Park, uno di quegli impianti che profumano di calcio inglese da lontano. "The Old Girl" come lo chiamano affettuosamente i tifosi, spunta in mezzo alle case nei pressi della stazione cogliendoti di sorpresa quando meno te lo aspetti, segnalato soltanto da un meraviglioso cottage in stile Tudor, all’incrocio fra Carisboroke Road e Fragmore Road. Fratton Park è il cuore di Portsmouth. Si capisce anche dalle indicazioni stradali che man mano ti allontani dallo stadio recitano “Out of City” e fino al 2007 ha avuto curiosamente ancora una tribuna scoperta, la Milton End, riservata alle tifoserie ospiti, causticamente ribatezzata Gene Kelly Stand in associazione con il suo successo musicale di Singing in the Rain. Strana Portsmouth, dopotutto la possiamo considerare un’isola, collegata alla terraferma da tre ponti stradali e uno ferroviario ma quei segnali in verità stanno dicendo un'altra cosa: Là fuori si trova una parte diversa di Hampshire, là fuori c’è Southampton… Quella della rivalità con i “saints” è fenomeno antico. Nel 1904 i prodromi dell’antagonismo compaiono sulle pagine dei giornali locali che raccontarono di come i tifosi del Portsmouth accolsero i vicini con un fitto lancio di “clinker” ossia resti oleosi dei binari per una partita di Southern League. Altro episodio cruento fu senz'altro quello relativo al derby giocato in FA Cup il 28 gennaio 1984, passato alle cronache come la battaglia del Solent, il primo scontro diretto nella competizione dopo 78 anni che vide vincere il Southampton per 1-0 nei minuti di recupero con un goal di Steve Moran in un clima intimidatorio da ambo le parti. A fine partita Lawrie McMenemy, il manager dei saints ironicamente disse: “Ok siamo nel quinto round e in più oggi abbiamo raccolto cinque sterline in moneta e un chilo di banane”. Chiunque tifi per il Southampton è uno Scummer (gentaglia), mentre a Portsmouth sono Skates, che in italiano si legge pattini, ma significa anche pesce senza spina dorsale usato in maniera dispregiativa per indicare i marinai. Entrambe le città sono dei porti, entrambe più o meno della stessa dimensione, maledettamente attigue, maledettamente diverse. Southampton chic e borghese, Portsmouth proletaria e ruvida. I sostenitori dei pompeys dicono: “Hanno sempre giocato la carta dello snobismo, ma senza effetto, sono sempre stati gelosi di noi, della città e della nostra squadra! Cos’ha avuto Southampton? Il soggiorno del Re “Canuto” e il Titanic, che affondò...” A Portsmouth sono legati Charles Dickens, la cui casa al 393 di Old Commercial Road ora è un museo, e Sir Arthur Conan Doyle che fu medico a Bush Ville scrivendo in quel periodo il suo primo romanzo con protagonista Sherlock Holmes. E a proposito di Conan Doyle, un aneddoto (abbastanza infondato a dirla tutta) vuole che vestì anche i panni di portiere del Portsmouth. Il Portsmouth, come detto, vincerà per due anni consecutivi il titolo e sarà la prima squadra del XX° secolo a riuscirci. Lo farà grazie al suo condottiero Dickinson e da un esagono delle meraviglie composto dal cannoniere Peter Harris, il capitano Reginald Flewin, Ike Clark, Jack Froggatt, Duggie Reid e il portiere Ernest Butler. Un Portsmouth che dieci anni addietro si era preso la soddisfazione di portarsi a casa la FA Cup strapazzando 4-1 in finale il Wolverhampton. Portsmouth è porto navale, non mercantile. Esiste una differenza che marca il soprannome della squadra e dei suoi abitanti. Questione complicata. Ci sono varie teorie. Quattro le più accreditate. La prima non in ordine d’importanza, afferma che un gruppo di marinai della città scalò la colonna di Pompeo nei pressi d’Alessandria d’Egitto intorno al 1781, diventando noti come i “Pompey Boys”, oppure ecco la “Pompee”, una nave francese catturata nel 1793, ormeggiata in porto e demolita venticinque anni più tardi, si passa  da Caterina di Braga che donò Bombay a Re Carlo II per il suo matrimonio e i portoghesi notarono una certa somiglianza tra il porto della città indiana e quella inglese a causa dei fondali molto simili, e ciò potrebbe aver portato a ribattezzare Portsmouth ‘Bom Bhia’, anglicizzato in Pompey, infine non escludiamo i Romani che quando il porto incominciò a svilupparsi, l’avrebbero soprannominato Pompei e da lì l’assonanza con Pompey. Meno discussa è l’associazione con l’emblema del club: una stella d'oro che sovrasta una mezzaluna su uno scudo azzurro. Re Riccardo I cuor di leone concesse alla città questo simbolo dopo la presa di Cipro. Curiosità. All'anagrafe di Portsmouth troverete un nome particolare: John Portsmouth Football Club Westwood, professione libraio. Nato nel 1963 ha guadagnato una certa notorietà ed è considerato un simbolo del tifo appassionato. Sempre presente, ha fatto della squadra una ragione di vita, lo noterete immediatamente per via del corpo completamente tatuato, la parrucca a treccine colorate e un lungo cappello a tuba pieno di scacchi bianco blu mentre magari si ostina furiosamente a suonare il ''big bell'' ricordando, vagamente, gli effetti della forza del vento quando smuove i telai degli alberi delle barche a vela mentre vengono riposte in rada. Dal 1950 all’anno di grazia 2008 da Fratton Park sono passati molti giocatori tipo Alan Knight. Solo Jimmy Dickinson ha raccolto più presenze di lui nel Portsmouth e il culto per il portiere nato a Londra è altissimo. La sua vicenda sportiva inizierà quando da ragazzo trascorreva le vacanze estive allenandosi come "apprendista" prima di firmare un contratto a breve termine e debuttare in prima squadra nel 1978 lo stesso anno in cui Admiral presentò la sua innovativa divisa per il Portsmouth. Accumulerà 800 presenze e per i tifosi resterà "The Legend", termine abusato fino alla noia eppure poco circumnavigabile se parli con qualsiasi tifoso della squadra. Nel 1992 lui era in porta durante la semifinale di FA Cup, dove il Portsmouth fu sconfitto dal Liverpool solamente ai calci di rigore dopo due partite furiose e bellissime. Ci sarebbe perfino spazio per chi, guardato con malcelato sospetto, ha fatto il viaggio da Southampton a Fratton Park come nel caso di Alan McLoughlin. Sette anni corredati da 54 goal da centrocampista… infine Guy Whittingham, detto il “Il caporale” uscito curiosamente non da un normale academy clacistica ma da un reparto dell'esercito dove insegnava educazione fisica. Sta di fatto infila 48 reti nella stagione 1992-93 sommate fra tutte le competizioni e nel 1999 tornò a Portsmouth da manager per provare a salvare i blues dalla retrocessione. Dicevamo del 2008, la stagione che riportò la Coppa d’Inghilterra in città dopo sessantanove anni. Non passerà certo alla storia come una delle finali più spettacolari, quello che è certo è che la vittoria del Portsmouth sul Cardiff City per 1-0 fu un evento abbastanza particolare. Per i gallesi, iscritti alla Championship, che col loro unico successo datato 1927 avevano costretto la Football Association a cambiare nome alla coppa dalla stagione successiva: da English Cup a FA Cup. Per i grandi vecchi come Jimmy Floyd Hasselbaink e Robbie Fowler (convocato dopo cinque mesi di stop per infortunio poi, all’ultimo momento, non portato nemmeno in panchina). Per il Portsmouth di Harry Redknapp, che finalmente ebbe la possibilità di conquistare davvero qualcosa d’importante. I Pompey’s avevano addobbatoi lo spogliatoio con discreta collezione di vecchie glorie: David James, Sol Campbell, Nwankwo Kanu. E proprio al centravanti nigeriano toccherà l’onore di firmare il successo dentro il fiammante, nuovissimo Wembley, sfruttando un errore del portiere del Cardiff a otto minuti dalla fine del primo tempo. Successivamente con la decisione del tribunale di Portsmouth che impose alla proprietà la vendita dello stadio ai tifosi cadde l’ultimo ostacolo alla realizzazione della più grande acquisizione di un club di calcio da parte dei propri sostenitori nella storia del Regno Unito. Il Portsmouth FC diventerà quindi proprietà del Pompey Supporters Trust (PST): un’associazione nata dal basso che attraverso collette, organizzazioni di partite amichevoli e il contributo degli azionisti riuscirà a salvaguardare il club dal fallimento incombente. Una svolta, l’azionariato popolare, alternativa credibile a quelle proprietà – spesso difficili da rintracciare nella miriade di holding dietro di cui si nascondono – che utilizzano le squadre di calcio alla pari di lavanderie e poi le lasciano fallire scappando con il bottino o scappando e basta. Così mentre un gabbiano si posa sul tetto della Milton End e i venti della Manica fanno garrire le bandiere del Fratton, finalmente: “Play up Pompey.”


Foto (maggio 2016)




MIO FRATELLO E' FIGLIO UNICO

  Nella Taranto specchiata fra il Mar Piccolo e il Mar Grande come una donna antica e fiera ci sono tute da lavoro e maglie rossoblù appese ...