mercoledì 30 settembre 2020

CHIEDI CHI ERANO I VILLANS



 

La signorina Adams, segretaria dell’Aston Villa Football Club, quella gradevole mattina di metà giugno del 1974 si presentò in ufficio con un sorriso più smagliante del solito. A casa aveva diminuito la dose di panna da mettere sul caffè e il rossetto le appariva stranamente in perfetto ordine. Nei giorni precedenti, colloquiando al telefono, era riuscita a stabilire un paio di appuntamenti molto importanti. Il primo da tenersi negli uffici vittoriani di Trinity Road, alla presenza del presidente Doug Ellis, e un secondo, subordinato agli esiti del suddetto, presso i campi d’allenamento della squadra in Bodymoor Heath.

Elizabeth Adams, 37 anni portati maluccio, posò gli occhiali sulla solida scrivania in radica di noce, si appuntò sulla nuca i lunghi capelli fulvi e per un attimo, dagli infissi del Villa Park, scrutò la sagoma gotica dell’Aston Parish Church dove avrebbe tanto desiderato sposarsi, dopodiché, abbandonando quel pensiero, con malcelato rammarico, sorresse a malapena lo sguardo sulla fila dei quadri appesi alla parete di fronte a lei che emanavano folate di storia così forti da far impallidire un presente fatto di divisioni inferiori e anonime posizioni di classifica.

L’ultima stagione in cadetteria si era conclusa da poco con il "Villa" aggrappato allo scialbo ramo del quattordicesimo posto arrabattato a fatica dalla squadra allenata dal gallese Vic Crowe. Troppa gloria perduta la fissava dentro quella stanza; volti austeri, colti nelle loro espressioni più serie, schermati dal vetro e guarniti alla base da un etichetta aurea da toccare con la stessa ricettività e attenzione di un cieco che legge in braille: Jack Hughes, Frederick Matthews, Walter Price, William Scattergood.

Eccoli i quattro padri fondatori, la scintilla, coloro che una sera d’inverno del 1874 seduti sulle panche nodose della Wesleyan Chapel e rischiarati dalla luce fatua di un lume a gas, decisero di donare a Birmingham il cuore profondo del calcio inglese. Non solo, sull’altro lato dell’ufficio pendeva un ulteriore imponente ritratto; quello di un baffuto scozzese, un uomo d’affari, tale William McGregor, evangelista convinto, uno che non beveva, non fumava, sfuggiva alle lusinghe delle donne alla stregua di un santo, ma evidentemente non riuscì a resistere alla tentazione di un pallone ruzzolante, offrendosi di aiutare in qualche maniera il vagito dell’Aston Villa.

Nel 1878, di ritorno da Edimburgo, donò al gruppo una muta di divise da gioco recanti sul petto uno sgargiante leone rosso su campo nero. Una livrea da torneo medievale, quasi un frammento ritagliato da una pagina dell’Ivanohe di Walter Scott. Purtroppo quel leone non ebbe nessuna possibilità di successo contro la ligia signora delle pulizie diventando, a furia di lavaggi, pallido e anemico. Resterà il simbolo del club, certo, ma tornerà a ruggire sulle commoventi maglie claret&blue soltanto dal fatidico 1957 allorché l’Aston Villa di Eric Houghton (ghigno, sigaraccio, trilby verde e soprabito scuro) scese a Londra per il settimo e ultimo sigillo nella FA Cup. 

Tuttavia in quel frangente, mentre la radio passava “Rebel Rebel” di David Bowie, qualcosa diceva alla signorina Adams che il Villa stava davvero per tornare in alto e che lei, finalmente, avrebbe trovato marito. In fondo occorreva essere ottimisti, quel giorno c’era il sole a brillare sui muri rossastri di Witton Lane e sulla vecchia Holte Road, dove quattro secoli addietro un certo Thomas Holte costruì un’incantevole locanda, e allora, per non scordarsi delle ataviche bevute, il club pensò bene di intitolare la più grande stand dello stadio proprio a questo tizio benemerito.

Il nuovo tecnico, secondo i piani, sarebbe dovuto essere Ron Saunders in uscita dal Norwich, un ex attaccante nato a Liverpool nel 1932 con discreti trascorsi per Everton, Gillingham e Watford nonostante una vertebra cervicale in pessime condizioni. Ron rappresentava la sintesi perfetta di una persona degna della più aristocratica sala da tè: elegante, composto, educato, mento volitivo, sguardo indagatore e, ahimè, anche una calvizie inclemente nascosta a stento da un misero riporto.

Il presidente Doug Ellis, in carica dal 1968, con cui Saunders si interfacciò al suo arrivo era invece un imprenditore controverso, astuto al punto giusto, mai molto amato e sicuramente bizzarro, se si pensa che fece installare un particolare sistema di citofoni all’interno del Villa Park per poter parlare con gli allenatori durante le partite. Fatto sta che Saunders sottoscrisse il contratto e la “lunga marcia” dell’Aston Villa non poteva cominciare meglio visto che arrivò subito un secondo posto alle spalle del Manchester United (altra nobile declassata) che significò promozione in First Division. La ciliegina sulla torta sarà l’inaspettata finale della Coppa di Lega a Wembley in cui i Villans piegarono, guarda caso, il recente passato di Ron, ossia il Norwich City, con una rete di Ray Graydon.

Le stagioni che seguirono stabilizzarono il club nel campionato maggiore, merito soprattutto delle prestazioni dello scatenato attaccante Andy Gray, scozzese biondiccio prelevato dal Dundee United, che con i suoi prodigiosi goal nel fango nelle serate grigie e piovose, scaldava le membra meglio di un sorso di Punch o di un vasetto di Bovril. Doug Ellis nel frattempo cedette la presidenza a Sir William Dougdale, signore della buona nobiltà britannica, educato a Eton, discreto pilota, egregio granatiere decorato con la croce di guerra, appassionato agricoltore, azzeccagarbugli, giramondo, buon fantino e ci mancherebbe: nominato baronetto a Warwick.

Per non farsi mancare niente sembra che passò anche una notte in cella, reo di aver colpito con un pugno un poliziotto durante una manifestazione. A questo punto dobbiamo fare un balzo in avanti, dobbiamo saltare al maggio del 1981, a quel Natale dell’anima in cui il capitano Dennis Mortimer, barba gitana e cespuglio di capelli in testa, si affaccia sorridente dal balcone della Council House in Victoria Street mostrando il trofeo della Prima Divisione.

L’Aston Villa era tornato a conquistare il titolo dopo 71 anni di attesa. Lo sforzo vincente, fissato sugli almanacchi con il timbro 1980/81, giunse dagli esiti dolenti della dipartita del beniamino Gray che si accaserà al Wolverhampton per 1,5 milioni di sterline. A rimpiazzarlo spuntò Peter Withe, mascella quadra e fisico da taglialegna. Avrebbe dovuto far coppia con Brian Little ma quest’ultimo incappò in un serio infortunio al ginocchio che ne fermò prematuramente la carriera. Fu così che Saunders promosse un prodotto delle giovanili, il platinato local boy Gary Shaw. Si trattò di un autentico miracolo sportivo.

Riuscire a portare a termine vittoriosamente una stagione estenuante come quella inglese con appena 14 giocatori a disposizione significava aver letto la dottrina degli astri come Eraclide e chiudere ogni allenamento in avanzo di ossigeno. L’undici titolare vide in porta l’esperienza di Jimmy Rimmer, protetto dal vallo difensivo formato dai centrali Allan Evans e Ken McNaught, ai lati Kenny Swain e Gary Williams, in mezzo il condottiero Mortimer e il talentuoso faccia d’angelo Gary Shaw con accanto due ali diversissime tra loro, l’agilissimo Tony Morley, genuina “English Wing”, e il più guardingo Desmond Bremner detto “Dezzie”, ragazzo cresciuto in un villaggio sperduto del granitico Aberdeenshire dove gli uomini sono uomini e anche le pecore sono nervose.

Ne uscì una formazione votata al dinamismo e praticante un football spregiudicato grazie alla fantasia del regista e aggiungerei sceneggiatore Gordon Cowans, autentica musa ispiratrice che si portava dietro la leggenda di essere in grado di far atterrare un pallone su una moneta da un 5 pence da oltre 40 metri. E se ciò può sembrare banale nell’accezione della raffazzonata, retorica, mitologia corredata al calcio, lo studio del mito riporta che ad oggi nella speciale classifica del più grande Villans di ogni epoca c’è esattamente lui, il nativo di West Conforth, una manciata di case della Contea di Durham dove Dio ha messo il carbone e gli abitanti vi hanno eretto una Cattedrale.

Ma a quelli del risorto Aston Villa non bastò tornare a sedersi sul trono d’Inghilterra; l’anno seguente ci sarà addirittura la consacrazione europea. Un anno che parve non dovesse concludersi nel migliore dei modi quando il 9 febbraio, a causa di un disaccordo contrattuale (o divergenze con la nuova coppia dirigenziale Bendall-Wiseman), Ron Saunders decise di dimettersi dall’incarico di manager lasciando baracca e burattini nelle mani del suo fidato assistente Tony Barton, tipo schivo, riservato, e padre di tre figli. Ciò nonostante se le cose in campionato galleggiarono sulla linea della sufficienza, Barton guidò caparbiamente la squadra verso la finale della Coppa dei Campioni a Rotterdam. Sua moglie Rose (vedova dal 1993) ricorda: 

"Qualche giorno prima che mio marito partisse per l’Olanda uno zingaro bussò alla nostra porta mostrandoci la sua mercanzia, si trattava essenzialmente di lavori di cucito con pizzi di lana. Ne comprammo uno e lo zingaro affermò che si trattava di un oggetto molto fortunato. Non sono mai stata scaramantica ma in qualche modo quel merletto lo feci scivolare segretamente dentro il borsone di Tony".

Come sia andata la partita lo sanno tutti (giusto magari rammentare che il portiere titolare Rimmer fu costretto ad uscire appena al terzo giro di lancette e il sostituto Nigel Spink decise di inventarsi la notte della sua vita). Ma per chi si fosse perso il risultato di quel 26 maggio 1982 e volesse scoprirlo, sarebbe bello andasse a dare un’occhiata alle parole scritte sulla balaustra della North Stand del Villa Park che riportano la storica, concitata, frase del commentatore della BBC Brian Moore, strappate nel momento più intenso della sua telecronaca:

"Shaw e Williams si sono preparati ad avventurarsi sulla sinistra, c’è una buona palla al centro per Tony Morley, oh, ecco una grande opportunità! Ed è Peter Withe a sfruttarla al meglio!"

Aston Villa 1 Bayern Monaco 0.

 

 

LACRIME NELLA PIOGGIA



 

 

Pioveva da giorni. L’acqua portata dalle nuvole nere sbucate dalle montagne di Aizkorrie e Gorbea scivolava come ruscelli in piena attraverso il dedalo delle sette antiche vie del Casco Viejo. Bilbao era un intarsio bagnato e reticente. Nelle insegne dei negozi spiccavano ancora ben visibili le ammaccature di proiettili, non tutti di gomma, sparati dalla Guardia Civil. Mischiato agli afrori della pioggia battente il profumo dei tanti negozi di alimentari che occupavano il pian terreno dei vecchi palazzi: stretti gli uni agli altri al punto da rubarsi il timido sole che filtrava a tentoni. Sulle terrazze degli appartamenti, fra Somera, Artekale e Tendería, restavano appese bandiere fradice appiccicate alle ringhiere in attesa di qualche folata di vento per tornare asciutte e frusciare refoli di orgoglio e libertà. Gli argini del Nervion apparivano carichi ed esausti. Si giocherà? Nessuno lo sapeva con esattezza. La situazione politica nei paesi baschi continuava a restare tesa: le organizzazioni sindacali sembravano intenzionate ad insistere nell'azione rivolta ad ottenere un'amnistia totale dei detenuti politici ma si ignorava se queste ultime volessero continuare lo sciopero generale che aveva praticamente bloccato ogni attività da alcuni giorni. Dopo l'annullamento della tappa del Giro ciclistico di Spagna, la Durango-S. Sebastian, fu sospeso anche l’incontro di campionato tra la Real Sociedad e il Siviglia. Tutti guardavano a Bilbao perché c’era da giocare la finale di ritorno della Coppa UEFA e il San Mames era già esaurito. Un interesse senza precedenti. Per l’allenatore dell’Athletic, Koldo Aguirre, a Torino la Juventus aveva deluso e adesso i suoi ragazzi potevano farcela a ribaltare la rete al passivo. I problemi con i quali stava alle prese erano costituiti dalla lombalgia che affliggeva il portiere icona Josè Angel Iribar e l'indisponibilità di Andoni Goicoechea la cui furia agonistica ebbe l'effetto di beccare un cartellino pesante al Comunale. Probabilmente nel ruolo di centrale il bilancino della possibilità oscillava  fra Onaederra e il giovane Alexanco, una delle rivelazioni dell'annata, messo fuori causa a inizio stagione da un infortunio al ginocchio ma adesso pronto a ributtarsi nella mischia. Si parlava di Jose Maria Lasa e dell'inserimento del sempre incisivo Carlos Ruiz tra gli attaccanti. Insomma, il 18 maggio 1977 tutta Euskal Herria sperava in una rimonta dell'Athletic. Intanto, al di là del successo sportivo, la vittoria continentale avrebbe garantito un utilissimo credito per mettere la città sulla mappa del mondo e condividerne i problemi mentre sul fiume sarebbero scivolati battelli ammantati di striscioni a righe biancorosse con a prua, in bella vista, la prima coppa europea di un club che di esotico possedeva soltanto il nome d'origine britannico. Per il resto, dal presidente all'allenatore, dall'ultima riserva al massaggiatore, erano tutti rigorosamente di estrazione basca. Tuttavia non c’e solamente l’identità a tenere uniti i tifosi dell’Athletic, c’e anche una visione della società che a oggi a molti può sembrare impensabile e anacronistica. L'Athletic è una sorta di democrazia diretta, un azionariato popolare, nel quale l’assemblea dei circa 30.000 soci sostenitori, che assiepano il San Mamès, ha voce in capitolo su qualsiasi decisione. Il club, per atavica fierezza regionalistica, rinuncia di fatto agli stranieri assumendo esclusivamente calciatori nati e cresciuti nella zone contrassegnate dalla cultura e dai sapori baschi per esaltare l'amore e l'interesse in difesa dei propri colori e delle proprie tradizioni (su di loro cali benedizione e indulgenza plenaria). E' dunque, tornando sul pezzo, la Juventus guidata in panca dal debuttante Giovanni Trapattoni, in quel maggio del 1977, doveva innanzitutto fronteggiare la calorosa spinta indipendentista a cui il popolo basco non intendeva certo rinunciare: per loro l’incontro si vestirà, come in ogni occasione degna di nota, di un significato che trascendeva il mero fatto calcistico. “Una Senora contra los leones" scrìssero sui giornali locali per avvertire gli italiani dei rischi che si corrono quando ci si trovava chiusi dentro la “Cattedrale”. Rimaneva il dubbio legato alla situazione esterna, alla tensione e alla paura avvertita ogni ora più massiccia, in una Bilbao umida e irretita che all’ora di cena della vigilia taceva ringhiando fra i denti, in un'atmosfera da autentico coprifuoco con l’Athletic deciso a giocare la finale portando il lutto al braccio in ossequio alle vittime degli scontri che avevano caratterizzato il sanguinoso fine settimana precedente. Intanto continuava a piovere, seppure con meno insistenza, e la federazione dette il via libera al match ma a nulla valse il mazzo di fiori lanciato dagli juventini in maglia blu verso il busto del capocannoniere di ogni tempo “Pichichi”, al secolo Rafael Moreno Aranzadi, per smorzare la palpabile ansietà emotiva. Il dittatore Francisco Franco era morto nel 1975, ma solo qualche settimana prima di Natale venne ritirata fuori dai cassetti la Ikurriña, lo stendardo degli stendardi, creata nel 1894 dai fratelli Luis e Sabino Arana. Fu durante un derby ad "Atocha" che la bandiera vietata rifece la sua comparsa pubblica portata dai capitani Inaxio Kortabarria della Real Sociedad e José Ángel Iribar dell’Athletic, dopo che Josè Antonio de la Hoz Uranga detto “Abertzale” (che sta all’incirca per patriota..) ex giocatore della "Erreala", fremente attivista, la farà cucire dalla sorella e a farla entrare sul terreno di gioco nascosta dentro un borsone pieno di tute e borracce. In questo clima da tregenda si giocò Athletic- Bilbao- Juventus del 1977 e probabilmente l'eccitazione farà subito un brutto scherzo ai padroni di casa perché nonostante un immediata incetta di calci d'angolo a favore, su un terreno ogni minuto più allentato dal fango, Roberto Bettega in tuffo, su pennellata di Tardelli, anticipò il terzino Escalza, infilando una rete che apparve letale. Ciò nonostante l'Athletlc ebbe una reazione a dir poco vigorosa, schiumando bile. Villar si prese le redini del centrocampo, la classe di Rojo mostrò la sua profondità e quando Lasa pescò inebetiti Morini e Scirea, Chiurruca servì a due passi dalla porta Irureta al quale bastò spingere per il pareggio. Una polveriera, un accendersi, nel nome del rosso di Biscaglia, del verde decussato di Sant'Andrea, e dell'albero di Guernica instillato nel bianco della croce cristiana. “Quando manca?” sarà la preghiera laica e assidua di diversa variabile temporale chiesta dai giocatori di entrambe le squadre. Gli assalti dell’Atheltic continuarono, ci fu forse un rigore negato ai padroni di casa dopo un intervento molto dubbio di Scirea su Dani e il San Mames allora diventò una prigione di rabbia; partì qualche bottiglia di birra di troppo sul campo e le punte degli ombrelli picchiavano sulle nuovissime reti di recinzione scrollando goccioloni d'acqua sporca. Poi Lasa pizzicò Zoff, commettendo fallo di mano, niente da fare. Nella ripresa Trapattoni si cautelò di fronte alla mareggiata basca con il terzino Spinosi al posto del centravanti Boninsegna. Benetti e Furino si disporranno in una diga  esemplare forata quando sembrò non ci fosse più luce nelle prospettive dell’Athletic e su un calcio d’angolo battuto da Rojo spuntò la testa nel neo entrato Carlos che manderà avanti i suoi, solo che per le regole delle reti in trasferta non bastava. Mancavano 12 minuti, lunghissimi o brevissimi a seconda dei punti di vista, dove l'Athletic sfiorò soltanto quel terzo, bramato goal, che avrebbe cambiato la sua storia e chissà, non soltanto quella.

HARIS BRIKIC

                        


Non fare domande, e non ti verranno dette bugie. Sanya è una donna violentemente bella dagli occhi scuri e un dolore piantato come un pugnale nell’anima. Vent’anni fa era la fidanzata di Haris Brkić, canotta numero 5 del Partizan Belgrado. Il vento, che qui chiamano Košava, porta una domanda orbata di risposta.* “Esco, torno a casa, ho un piccolo risentimento, domani mi faccio fare un massaggio dal fisioterapista, ciao Darko”. Sono le ultime parole uscite dalla bocca del giocatore. E’ il 13 dicembre del 2000 nella città bianca. San Sava batte le dieci di sera, allo Stenka, il ristorante lungo il fiume, si cuociono zampette di maiale in salsa di rafano, Kalmegdan* dorme, l’Hotel Moskva sembra dimenarsi con il suo tetto d’ardesia stretto fra i severi palazzoni di lanugine socialista. Haris ha parcheggiato l’auto in una via laterale del vecchio Pionir, il tempio indiscusso della pallacanestro Yugoslava, qualche crepa, molti graffiti, un officina meccanica, un ostello per studenti, un parco di platani spogliati dal gelo, qualche lampione ad emettere opacità giallastre nel silenzio acuito dal freddo. Haris Brkić era nato a Sarajevo, madre serba e padre bosniaco, due metri di assoluta eleganza, un terzo tempo che è una sorta di dribbling dal finale scontato. Inizia a giocare per il Bosna, poi, mentre tutto comincia a crollare sotto le percosse della guerra, decide di firmare per il Partizan e al primo arresto e tiro è già un idolo dei tifosi grobari, i becchini. Nel 1998, a 22 anni, fa impazzire tutti nelle Final Four di Eurolega disputate a Barcellona ma deve arrendersi alla Virtus Bologna del suo compagno di nazionale Saša Danilović. Haris Brkić avrebbe voluto infilare Bulevar Despota Stepana e da lì giungere fino all’appartamento in Piazza Slavija. Dall’interno del Palasport si sentono nitidamente delle esplosioni. Ragazzate? Petardi? Nessuno si immagina due colpi di pistola. Uno lo colpisce sotto lo zigomo, uno in pieno nell’occhio destro. Haris Brkić cade a terra privo di vita. Lo troveranno accartocciato ai piedi dell' automobile, lo sportello semiaperto, il borsone ancora stretto in mano. Nessuno sa, anzi, nessuno ha mai saputo niente, le indagini si sono arenate, nessuna traccia, nessun attrito, nessun sospetto, niente di niente, una morte così, per gioco, per folle inerzia, il vuoto nei caratteri cirillici di inutili faldoni d’archivio. Sua mamma Radmila continua a non darsi pace, suo padre Ismail non ha retto alla perdita e qualche anno dopo il cuore ha ceduto. Sanya ha provato a rifarsi una vita, non cerca vendette, solo ogni giorno continua a chiedersi "perché", gli basterebbe quello, capire perché quel 13 dicembre del 2000 nel parcheggio deserto del Pionir una mano ignota ha ucciso il suo Haris.

 

DOMENICO L'AEROPAGITA

             




Quando il 19 settembre del 1995, una mattina di fine estate, sotto un cielo luminoso, quasi bianco e tremolante, all’aeroporto Eleftherios Venizelos di Atene, scese il 9 volte All-Star della NBA Dominique Wilkins c’erano oltre 10000 tifosi in delirio ad aspettarlo. Il Pananthinaikos dei fratelli Pavlos e Thanasis Giannakopoulos misero il tassello più importante nel quintetto dell’insondabile Božidar Maljković. Wilkins corroborava il corredo scultoreo già formato dai capitelli Giannakis, Vranković, Alvertis e Patavoukas, tanta esperienza per una squadra già di grande spessore che non velava affatto la sua ambizione di vincere per la prima volta un Eurolega. La sezione cestistica del Pana nacque nel 1922 acquisendo il nome battesimale di Panathīnaïkos Athlītikos Omilos marchiandosi anch’essa con il trifoglio come simbolo costitutivo, scelto per empatia con l'atleta Billy Sherring, che aveva incantato i tifosi sportivi locali vincendo la maratona alle Olimpiadi ateniesi del 1906 con il fiore di San Patrizio sulla maglietta. L’assioma con il verde diventa automatico. Il cuore del Pana batte nel nord di Atene ad evidenziare se mai c'e ne fosse bisogno l'estrema lontananza di stile e di idee nei confronti dei nemici giurati stanziati giù al Pireo, e mentre si scende, ci si accorge che questa città, urbanamente disarmonica, cozza con la sua anima culturale più profonda, mentre quotidianamnete sforna il pane più buono chiamato Pita, e ai tavolini del centro si mangia Souvlaki e Moussakà. "Boža" Maljković, serbo del villaggio di Otočac, con un padre ufficiale dell’esercito popolare jugoslavo, è una sfinge dall’intelligenza rivoltante, argentea. Una carriera all’insegna delle tappe bruciate, che non a caso si concretizzerà nella squadra più sorprendente e precoce della storia: la Jugoplastika di Spalato. Lo accusavano di eccesivo difensivismo, (tesi discutibile) di un caratteraccio (vero). Al primo allenamento vide seduto Wilkins con la pompetta per respirare. “Ma come, becchi tre milioni e mezzo e hai l’asma? Wilkins voleva tornare a casa per quattro giorni, Boža gliele diede otto, dicendogli: vediamo se torni in tempo per la prima di campionato. Dominique rientrò solo poche ore prima e non si cambiò neppure. Davanti a 20 mila persone si presentò in jeans, ovazione. Ad ogni modo serviva un cambio di rotta mentale. Il capitano Panagiotis Giannakis se lo prese da una parte: “Nique, cambia atteggiamento, perché Maljkovic non lo cambierà mai”. Maljkovic amava gli stakanovisti, quelli che avevano le chiavi della palestra. La marcia per la conquista dell'Europa era iniziata da Kaunas, il paese aveva festeggiato da poco la sua indipendenza. In albergo un solo telefono alla reception. Non c'era nemmeno il riscaldamento, e il cibo (una zuppa pepata) fu servito in una sala enorme e vuota. Dominique Wilkins si guardava intorno frastornato, era precipitato davvero su un altro pianeta. Tuttavia, sul parquet aveva una missione chiara: vincere per il Panathinaikos. E i verdi su nel Baltico partirono con il piede giusto vincendo di tre punti. Il trifoglio arrivò alle Final Four di Parigi, si sbarazzò dei russi del CSKA e poi nella partita decisiva contro il Barcellona tutto sembrò mettersi per il verso giusto con Wilkins che a referto scriverà 35. Ciò nonostante, in qualche modo, i catalani rientrarono in partita. Con il Pana avanti di uno a 5 secondi dalla fine e palla in mano, Giannakis scivolò a terra a centrocampo. José Antonio Montero, lestissimo, gli ruberà la palla correndo verso il canestro per il più semplice dei lay-up, eppure non si sa come, Stojko Vrankovic lo braccava, gli prese il tempo giusto stoppandolo sul tabellone senza commettere fallo, sirena. Sarà uno dei momenti più spettacolari di sempre delle finali di coppa: 67-66. Quelli del “Gate” 13 scesero finalmente sull’agorà continentale e Dominique Wilkins si rivestì con la retina appena tagliata, e chissà se avrà pensato che un anello NBA non valeva quel momento di pura pazzia. Platone nel Fedro scriveva che la follia è tanto superiore alla sapienza in quanto la prima viene dagli dei, la seconda dagli uomini.

BOHEMIAN RHAPSODY

                           



Il Bohemians dovreste guardarlo attraverso una cartina tornasole virata su toni freddi, il colore acceso non rende completamente giustizia, non instaura il corretto registro, la piacevole armonia, la discrepanza fra la mitteleuropa che fu e l’orrido serrarsi dell’attualità. Sì, indubbiamente, il Bohemians Praga è una delle squadre più romantiche al mondo, non sentitevi offesi. Che poi si collochi nell’anima piena di sogni, persi in altrettanti sogni, di una città dove può accadere qualsiasi cosa, sotto cupole smeraldo che invocano neve, né dimostra la sintesi escatologica. Occorre salire sul Tram numero 24 in Piazza Venceslao e semplicemente scendere alla fermata Bohemians nel quartiere Vrsovice in cui il club sorse, frutto dell’idea di un virtuoso gruppo ciclistico che nel 1905 abbinerà il pallone alle due ruote quando da questo distretto le statue sul ponte di San Carlo potevi vederle soltanto se salivi sulla cima di un faggio poiché eravamo ancora in un ambiente prevalentemente rurale per non dire silvestre. Roba che un canguro alla fine si sarebbe trovato quasi bene. Ah, il canguro. L’animale totemico del Bohemians, cucito sullo stemma, è frutto della bizzarra donazione della Federcalcio australiana sul finire degli anni ‘20 dopo che la squadra andò a giocarci una tournée. In realtà i canguri erano due, una coppia, e lo stravagante regalo, una volta rientrati a Praga, venne affidato a Oldrich Havlín, un giocatore dell’epoca, che consegnò i canguri allo zoo cittadino in cui vissero sereni il resto della loro esistenza. Insomma cose curiose a Vrsovice, dove pulsa il vecchio stadio Dolicek, e tutt’intorno ruota una zona satura di palazzoni in Art Noveau, una zona schiva, di quelle da ambientarci un libro, o un film, con protagonisti degli incappucciati alchimisti, intenti al calar della sera a percorrere strette viuzze acciottolate, rischiarate dalla luce smorzata di lampioni velati dalla leggera bruma emersa silenziosa dal Botic, un fiumiciattolo, anzi un ruscello, il tutto mentre al caffè Sladkovsky, oltre a rimettervi al mondo con una pinta di Klobasa e un fumante Parek, potreste incominciare a veder spuntare la storia del club in quadretti appesi a pareti pastello ingentilite da tendine in stile liberty. Certamente non mancherà il ritratto di Antonin Panenka, baffi d’ordinanza e pancetta malcelata, l’uomo della foglia morta, quello che brevettò il rigore a cucchiaio, scommettendo sulla sua efficacia durante gli allenamenti con il portiere Zdnek Hruska. Panenka già a 11 anni si era vestito di biancoverde ma non c’era in quel 1983 quando il Bohemians vinse il suo primo e unico titolo nazionale e al Dolicek scoppiò un autentico delirio. Ecco, quegli anni profumano davvero di un romanticismo imbarazzante, fusione di bellezza e talento, densità semantica primordiale contro la quale non si può competere. La squadra del capitano Premysl Bicovsky, di Milan Cernak, di Jiri Sloup, che ebbe anche lampi di prestigio nelle coppe, e una sera, si prese la briga di eliminare l’Ajax di un giovane Marco Van Basten proprio nel catino "boemo" del Dolicek.

 

                    

IL CAVOLO SOTTO L'OROLOGIO




L'io narrante presenta il piccolo borgo olandese di Vondervotteimis. Un vecchio villaggio situato in una valle sperduta, sul quale è inutile indagare l’etimologia del nome perché in tanti ci hanno provato e in altrettanti rinunciato. Nessun abitante lo ho mai lasciato, nella convinzione che niente esista oltre le colline da cui è circondato. A Vondervotteimittiss, tutto deve restare uguale. I consiglieri comunali hanno deliberato che nulla debba cambiare e che gli orologi e i cavoli della cittadina costituiscano tutto ciò cui rimanere fedeli. Le case della borgata sono tra loro indistinguibili sia all'esterno che all'interno, e su di esse sono rappresentati un orologio e un cavolo. Tic-toc, tic -toc, e così via, senza soluzione di continuità. Eccola a nudo, nel “il Diavolo nel Campanile”, romanzo lisergico di Edgar Allan Poe, quell’Arancia Meccanica dai calcetti sincronizzati e perfetti, totalizzanti nel loro ego ipertrofico. Ma se Stanley Kubrik stupì il mondo con il suo film del 1971 cogliendo il pubblico impreparato davanti alla capacità di controllare tutte le fasi del processo creativo attraverso un funambolico esercizio di stile dove il tutto si incastra a perfezione, quell’Olanda ci provò e il tic-toc ammaliò le folle, solo che alla fine restarono i cavoli. Tuttavia nessuno fu più bello di loro, libertini, folli, rivoluzionari privi di epos, un autentica erboristeria del Corso dedita al calcio a tempi persi, rivestiti da quella febbre arancione, quel colore immaginifico, residuo della casata d’Orange. Cosa vuoi l’Ajax stava dominando l’Europa e tutti si sdrusciavano al ritmo di Let i Be, ma il mondo ha aspetti più crudeli che ludici, il mondo è dispotico, geloso, e gli aspettava in Germania per recidere sul nascere lo sboccio compiuto del tulipano in amore. Fu Marinus Michels (ma si, Rinus), a scompigliare i tarocchi del cartomante inventando uno stile dove ogni giocatore doveva fare altri ruoli, prendere quello del compagno scoperto, con la consapevolezza un pò freak di non modificare impostazioni e perdersi in perimetri sconosciuti. Tic-toc. Tic-toc. Proprio come la lancetta onirica dell’orologio di Vondervotteimittiss. Scambi ravvicinati, mentre il cronometro girava. Pressing? A che serve? Gegenpressing? bah... La Germania, quella federale, quella Germania battuta sorprendentemente dai vicini democratici seppur murati nell'animo, in una partita simbolo del girone eliminatorio, esiste, ma non si muove. Tic-toc,Tic-toc. L’orologio scandisce, l’odore di cavolo per il momento ristagna negli orti attorno ai canali. Dolcezza. Perché la meccanica olandese ti consente di capire il concetto di tolleranza. Una parola della quale tutti dovremmo tornare a riscoprire il significato. Un orologio non funzionerebbe se non ci fossero le tolleranze che consentono a una serie di organi di stare assieme. Vive perché́ ogni singola parte tollera quella che gli sta vicino e che per lavorare ha bisogno dei suoi spazi. Un perno di una ruota in un foro troppo preciso non funzionerebbe, perché́ ha bisogno di un seppur minimo gioco. Con l’Olanda di Michels, l’orologio è arrivato ad avvicinarsi al concetto di assoluta precisione. Toh, la sincronia appare perfetta, cadenzata, da una maglia arancione all’altra. Poi, d’improvviso, il lampo. Parte palla al piede l’ultimo uomo. Che in una squadra normale sarebbe un difensore. Ma non parliamo di una squadra normale. E l’ultimo uomo ha la maglia numero 14 e si chiama Johan Cruijff. Che in quel lustro risulta il miglior calciatore del globo, anticipa, ti spezza il fiato, se ne va, poi magari ritorna sui suoi passi e decide di metterti a sedere solo perché gli piace, come quelle maledette sigarette fumate nel dopo partita. Fa ciò che lo galvanizza e allora va a prendersi il pallone a centrocampo. Accelera, punta Berti Vogts, l’errante coscritto da guerra dei trent’anni, uno che di norma, se non smarrito su sentieri di sbronza, gli restano un paio di possibilità: provare a fare il terzino destro oppure il fabbro, due mestieri straniti dal non possedere comune sindacato. Nel piano tattico di Helmut Schön, Vogts, prova a francobollare Cruijff in ogni zona del campo. Per informazioni chiedere al povero Jan Olsson che giusto diciotto giorni dopo Olanda-Svezia lo stava ancora cercando sull’erba di Düsseldorf. Il 14 aumenta il passo, finta, Berti saluta. Ah, dimenticavo in quella partita l’arbitro è Jack Taylor, un inglese che gestisce una macelleria a Wolverhampton. Un quarto d’ora prima della partita entra per un controllo e inizia a guardare circospetto il terreno di gioco, poi, abbastanza compiaciuto, chiama un inserviente:

“Eh, certo, bravi voi tedeschi organizzazione perfetta, gran mondiale, però se potete farmi il piacere di mettere le bandierine sui corner vi ringrazierei molto”

Carosello. Entra in scena un personaggio inatteso. Uli Hoeness, mancinaccio che di mestiere fa l’attaccante nel Bayern. Cosa ci fa al limite della sua area? Sarà la contingenza astrale dell’allineamento di pianeti dovuta all’influsso del calcio totale, o la conseguenza del cervellotico tic toc? In quel punto del campo non è assolutamente in grado di discernere. E se usasse il fioretto? (No fallirebbe e Dumas (padre) pace all’anima sua, potrebbe risentirne). Allora magari potrebbe stare fermo ma cosa vuoi, quando davanti si profila il fronte l’adrenalina è tanta e dall’armeria lui tira giù la roncola. Cruijff finisce faccia a terra quasi sulla linea di fondo nonostante il duello al OK Corral dell’Olympiastadion sia avvenuto al limite dell’area. Rigore. C’è chi non è d’accordo. E' uno scompigliato tedesco, leggermente stempiato, con la faccia da bravo ragazzo del coro, il numero cinque sulle spalle e la fascia da capitano al braccio. Sembrava stufo di perdere Mondiali. Franz Beckenbauer era a Wembley nel 1966 a cercare di metabolizzare un pallone mai entrato e ha passato 120 minuti sul prato dell’Azteca in condizioni diciamo complicate in quel 4-3 contro l’Italia da neorealismo felliniano. E ora, dopo sessanta secondi, già si vede sotto a causa di un penalty non del tutto chiaro. Intendiamoci, il fallo c’èra, tuttavia la gamba di Hoeness che atterra Cruijff pareva fuori area. No, si batte, inutili le proteste, la palla è sul dischetto. Si presenta un altro Johan. L’altro. Neeskens, lo scudiero, capello da front man, una cinquantina di camicie a fiori nell’armadio della sua mansarda di Amsterdam, un paio di polmoni inesauribili, ottimo controllo di palla e soprattutto infallibile dagli undici metri. Breve rincorsa e rete, centrale, secca. Sepp Maier è agile ma non fa parte della categoria degli estremi difensori che provano a restare fermi. Lui si infila guanti bianchi e in fondo è un circense nell’anima, deve muoversi. Monaco tace. L’Olanda è in vantaggio. Si ma l’Olanda a orologeria si inceppa. Si ostina a compiacersi delle sue trame, nella sua sfrontatezza. Manca la rabbia, la voglia di sorprendere e di spaccare definitivamente quel mondo di conservatori. Di colpo, la squadra di Michels diventa Narciso, si avvicina all’acqua un po’ troppo pericolosamente, ma attenti non badate alle ninfe, attenti alla vita, al mondo, sempre lui, il mondaccio crudele; il mito di Narciso ve lo hanno spiegato male. Narciso muore annegato perchè per la prima volta, specchiandosi nel laghetto, si accorge che esiste e il suo vedersi nella vita lo deprime fino agli esiti estremi. L’uomo uscito dal nulla è Bernd Hölzenbein. Scatta, dribblando una difesa olandese arenata come i battelli della compagnia delle Indie al porto di Maracaibo, e i piedi di Hölzenbein e di Wim Jansen si scontrano, anche se l’impressione è che sia il tedesco a cercare il contatto. Taylor cerca di sfogliare con la mente ogni pagina polverosa delle Rules di Sheffield, ma alla fine propende per un nuovo calcio di rigore. Oh, il secondo in venticinque minuti, un record. Sul pallone i baffi anarchici e le basette incolte sotto il cespuglio di Paul Breitner. Di fronte ha uno spettacolo altrettanto particolare. Un portiere vestito con un’improbabile divisa giallo canarino contrassegnata dal numero 8: Jan Jongbloed, il tabaccaio, che gioca da dilettante in una squadretta quasi dopolavorista. Però con i piedi sembra Pelè e a Michels serviva un tipo così. Breitner sceglie un angolo, ci azzecca: 1-1. Accade che l’orologio si è davvero fermato lassù a Vondervotteimittiss e l’odore di cavolo nelle pentole adesso si avverte nell’aria tumida della Baviera. Cruijff non corre più, Krol gira a vuoto, Johnny Rep, l’Apollo, non ammalia più nessuno: seratina? Qualcuno sospetta. E la partita gira, chiaro. Gira alla stregua di Gerd Müller, piccolo, sgraziato, con due piedi non esattamente educati ma nei pressi della porta puntuale come la morte.  Bonhof, crossa rasoterra al centro dell’area. Müller c’è. La palla ha un breve effetto e gli finisce dietro, eppure si gira bene, inatteso, imbacuccato nel saio perfetto. A Jongbloed non serve l’attenuante di non essere portiere patinato. Der Bomber esulta, tutto lo stadio, esulta, apparte quella chiazza arancione che ancora vedeva le tracce dei panzer tedeschi sul fango di Utrecht e Arnhem. Non siamo neanche all’intervallo, tuttavia, signori, la partita finisce qui. Cruijff si becca un giallo per proteste. Di quel giorno di luglio del '74 non c’è nulla da ricordare, da tener caro. Ci sarà tempo e modo per riprovarci, ma il risultato sarà sempre quello. Un palo listato a lutto, nero, sfortunato, impedisce a Rensenbrink di decidere il mondiale del 1978. Nella memoria collettiva resterà la Grande Olanda, ma anche l’odore di cavolo di chi, appunto, non vincerà un cavolo. E finirà suicida nel suo distorcere le forme al pari della notte stellata di Van Gogh, dove il naturale è trasfigurato, finendo colpito dall’ultima crisi nervosa in mezzo ai campi di grano.

 



 

LA VIOLA D'INVERNO

  I ricordi non fanno rumore. Dipende. Lo stadio con il suo brillare di viola pareva rassicurarci dal timore nascosto dietro alle spalle, l’...