sabato 25 ottobre 2025

DIRCEU SI FERMÒ AD EBOLI

 


Il sole a picco, la terra arida, il vento secco a smuovere folate di polvere. Più che un campo da calcio il “Massajoli” assomigliava a una prateria di confine dove non si vedeva arrivare nessuno come nel deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Eppure, qualcuno arriverà veramente, un campione del calcio. In paese non ci credevano, non ci volevano credere almeno fino a che non lo videro con i loro occhi uscire da quella casamatta in calce grigia degli spogliatoi. Un giocatore amato in Brasile ormai conosciutissimo nella nostra serie A, dai folti capelli ricci, soprannominato "la formichina", colui che ebbe l'ardire di trafiggere Dino Zoff ai mondiali argentini del 1978, aveva scelto, a 37 anni compiuti, un luogo minuscolo incastonato fra i rilievi dei Monti Piacentini e il golfo di Salerno, dove il gioco del pallone era davvero quello delle poesie di Umberto Saba o di Pier Paolo Pasolini: divertimento, tanta passione e ginocchia sbucciate. Sì, Dirceu José Guimarães, si era fermato ad Eboli. In realtà prima di lui ad Eboli si era fermato “il Cristo” di Carlo Levi, saggio scritto durante la sua “permanenza obbligata” in quei luoghi in cui racconta la scoperta del mondo ancora arcaico dei contadini del Mezzogiorno. L’Ebolitana del presidente Elio Presutto intorno alla fine degli anni Ottanta militava in quello che all’epoca si chiamava Campionato Interregionale, una sorta di enorme frullatore, un caleidoscopio di tutti gli angoli più remoti della provincia italiana, tra nobili decadute di cittadine capoluogo opposte a paesi emergenti e arcigni, determinando spesso, tenacissime rivalità. Ma il calcio stava diventando una scienza. Luigi Cavaliere uomo dinamico e aitante, amante della sua squadra fu l’artefice dell’arrivo di Dirceu che per le cronache diventerà il primo calciatore straniero a calcare i nostri campionati dilettantistici. Il campione brasiliano, reduce da una mediocre esperienza negli Stati Uniti, stava meditando il ritiro dal calcio, ma il dirigente dell’Ebolitana, già in buoni rapporti con lui ai tempi del Napoli, gli farà la proposta stimolante o indecente (fate voi): “Josè la vedi questa cartolina? Sai come si chiama questo paese che sembra un presepio? Ecco, io lo vorrei portare in serie C, te la senti di aiutarmi?” Dirceu accetta, non gratis (cento milioni) allegando una richiesta: vuole in panchina l’amico brasiliano Rubens Galaxe. Zona alta, in un mondo calcistico ancora popolato da liberi boscaioli con licenza di far legna. Dirceu constaterà le condizioni del terreno di gioco, dei mezzi a disposizioni. Farà arrivare a sue spese le primissime sagome, quelle che si usano per allenarsi a tirare le punizioni, apportò importanti migliorie agli spogliatoi e si accerterà che tutti abbiano a disposizione borsoni, maglie, pantaloncini e tute sociali. Vengono mobilitati dei giardinieri nel tentativo semiriusciuto di verdeggiare il campo, il quale verrà leggermente allargato, aumentando la capienza con l’installazione di una nuova tribuna. E la maglia da trasferta dei biancoazzurri ebolitani diventerà gialloverde, proprio come quella della Seleçao. Dirceu dispensò consigli a chiunque: “Vuoi sapere come si fa a tirare forte come faccio io? Vedi, devi colpire il pallone dove c’è la valvola…” Insomma oltre che un piacere vederlo con il pallone fra i piedi, era una persona di eccellenti doti umane. Eboli gli piaceva. Per le strade, in piazza, su viale Amendola, tutti lo riconoscono e tutti lo fermano. Lui non si nega mai che sia per un caffè o per una partita a carte. “Se potessi giocherei sempre” - lo diceva e tutti e tutti gli credevano, perché, sulla soglia dei quaranta anni era sempre pronto a calciare una palla ovunque glielo chiedessero. Figlio di una famiglia operaia da bambino nella periferia di Curitiba sfondava finestre, rompeva vasi e sua mamma Diva si arrabbiava di continuo. Nel 1968 esordirà con la squadra della sua città fino a diventare un autentico zingaro del pallone. Con L’Ebolitana non riuscirà ad agguantare l’agognata serie C2 ma la sua classe aveva brillato, c’erano state delle reti meravigliose, come quella segnata alla capolista Juve Stabia allenata dall’ex leggenda del Napoli Canè. Un gioiellino su punizione, insaccato giusto sotto la curva ebolitana. Una piccola magia se vogliamo, uno sgarbo alla prima della classe. Oppure quando in occasione della gara con il Savoia ove il gemellaggio con la squadra biancoscudata trasformò la partita in una giornata di festa, in mezzo a migliaia di tifosi che riempirono lo stadio fece spellare le mani dagli applausi per l’ennesimo capolavoro balistico. Ma come ogni brasiliano, la saudade è troppo forte, per un periodo seppure breve se ne tornava a casa. E quando non c’era la squadra non girava, la calssifica si afflosciò, annullando le speranze di promozione. Qualcuno sbuffa: “S’è venuto a pigliare i soldi a Eboli”. Non mistifichiamo nulla, lui persona cortese e affabile solo era chiaro che aveva accettato l’Ebolitana per dei soldi e dopo per cortesia nei confronti del suo amico Cavaliere. Cercava un rifugio, aveva finalmente voglia di star tranquillo, lontano dalle pressioni. D'altro canto si sapeva, in fondo si va allo stadio per soffrire e per arrabbiarsi. Se ciò vale per l’Arsenal di Nick Hornby non volete che valga per l’Ebolitana? Dopo due stagioni a Eboli fu tempo di ritirarsi davvero, solo racconta un proverbio che se tu pensi di fregare il destino alzandoti mezzora prima di lui, il destino si alzerà mezzora prima di te e allora, per colpa di un banale incidente automobilistico Dirceu perse la vita insieme a Pasquale Sazio, giocatore che si stava mettendo in luce nell’Ebolitana e a cui fu proposto una  tournée in Brasile. Eboli non ha dimenticato. Nel 2001, quando venne inaugurato il nuovo stadio cittadino, nessuno ebbe dubbi su quale nome dovesse essere inscritto sulla targa d'ingresso: José Guimarães Dirceu. Un omaggio, non solo al campione, ma all’uomo che seppe far innamorare una città intera del suo modo di vivere il calcio: semplice, umano e infinitamente libero.

venerdì 24 ottobre 2025

UGLY INSIDE




Ne sta arrivando un'altra. Più dolce. L’ennesima onda che bacia languida la riva. Ti viene voglia di toglierti le scarpe, di bagnarti i piedi, di farteli accarezzare da quell’acqua gelida. Ti viene voglia di chiudere gli occhi, di non sentire più i rumori del porto, le urla garrule dei gabbiani, il mormorio sommesso della gente che passa distratta intorno a te. Percezione di fantasmi. Quelli partiti e non più tornati, non più trovati. Quelli che dovevano arrivare a New York e invece il 14 aprile 1912 a bordo di un enorme transatlantico nero costruito nei cantieri navali Messrs di Belfast, 400 miglia a sudest della costa canadese si scontrò con un enorme iceberg: La vedetta Frederick Fleet lo vide solo quando era ormai a 500 metri di distanza… “Iceberg di prua, signore!” Il primo ufficiale William M. Murdoch ordinò: “Indietro a tutta forza...” La repentina virata a sinistra si rivelò inutile, trentasette secondi dopo l’avvistamento avvenne l’urto a prua, sulla fiancata destra della nave, sei dei sedici compartimenti stagni rimarranno danneggiati e a sei metri di profondità l’acqua incominciò a filtrare nella nave. Le vittime saranno oltre 1500. Freddo. Usciamo da quest’acqua che nemmeno lei è la stessa. Di cosa abbiamo bisogno, di certezze o di sogni? Forse entrambe le cose perchè è vero necessitiamo di un briciolo di sano squlibrio per creare una stella danzante per dirla con Nietzsche. E allora Southampton ci ammaliava con qualcosa di essenziale, una rasoiata di Occam in piena faccia, pratici terrazzamenti di ferro e cemento. “Ugly Inside” potremmo dire, brutti dentro, come l’ironica fanzine uscita nel 1990 per protestare contro l'ex presidente del club Rupert Lowe. Invece il Dell era un attestato di identità, ciò che serviva per affermare l’unicità di un luogo e di un culto. Il Dell era lo stadio dei santi, quelli che ora giocano sulle rive dell’Itchen, cercando la spiritualità delle origini ma che di santità e rispetto ne hanno sempre meno, come tutti del resto. Il Dell fu il primo stadio ad installare un impianto d’illuminazione permanente, la casa del Southampton FC per 103 anni. Il Dell con la sua tribuna scalena. Uno degli ultimi satrapi cui le concubine del calcio inglese si sono concesse. Investito, abbattuto da un complesso residenziale dove i condomini, in un esemplare gesto di memoria, fanno incidere accanto alle loro porte d’appartamento nomi che si perdono nel vento, ma che il vento nel suo ciclo di eterno ritorno fa annusare ancora. C’è anche una divinità fra questi: Mattew Le Tissier, pargolotto cicciuto nato in un isolotto della Manica. Coste troppo vicine, contaminate il carattere ne risente parecchio. Eppure, “Matt” non vi sfidava, lui non vi vedeva, non rispettava il sacro dei luoghi comuni, aveva la pancetta ma se ne frega, preferiva il pub al centro estetico, era mezzo francese e mezzo inglese con lo sguardo torvo dei pescatori di Guernsey, ha amato Southampton e non se ne andrà mai, era Amleto perché c’era del metodo nella sua follia, ed infine era Dio, solo un pochino più bravo con il piede destro. Il primo centrocampista a segnare cento goal in Premier League. Non è l’unico nome. Provate a suonare i campanelli a Bobby Stokes, Ted Bates, Danny Wallace o a Mick Channon. Non vi apriranno loro, ovvio, ma qualcuno disposto a raccontarvi della sua fede nei “Saints” e della storia di questo club lo troverete di sicuro. Fra il sacro e il profano. Vi diranno di un curato che fondò il St. Mary Church young men's (abbreviato in "YMA St Mary") che poi divenne semplicemente S. FC of Mary nel 1887-1888, prima di adottare il nome di Southampton St. Mary quando il club si unì alla Southern League nel 1894, finché dopo aver vinto il titolo nel 1897 fu ribattezzato semplicemente Southampton FC. Ma si, come no. Vi diranno anche che quel giorno faceva un gran caldo. Un’ondata di caldo anomalo che nel 1976 aveva colpito l’Inghilterra. Inconsueto come quel vinile di Jasper Carrott chiamato “Carrott in Notts” che accompagnò il Southampton a Wembley per la finale di FA Cup. Era il primo di maggio e la città era vuota. Letteralmente. Tutti a Londra. O tutti davanti alla TV. A colori o in bianco e nero. Anzi in bianco e rosso, non c’era alternativa. La squadra allenata da Lawrie McMenemy la stava per combinare grossa. McMenemy era uno del nord, di Gateshead, specchio fedele della Newcastle che si affaccia sul Tyne. Ha il naso grosso e un sorriso convinto. Arriva dal Grimsby Town, dove ha vinto un campionato di Quarta Divisione. Al vecchio Dell troverà un club di seconda Divisione formato da un gruppo non giovanissimo. Tuttavia, il destino aveva in serbo un dono: la coppa d’argento, posata sul palco reale davanti alla Regina. Lucente come quelle maglie gialle indossate quel pomeriggio di primavera dai Santi. Il Manchester United aveva il dente avvelenato. Retrocessione infausta da smaltire patita due anni prima e per ironia della sorte dettata dall’ex Dennis Law davanti ai muri piangenti di Old Trafford. Una vergogna che andava vendicata con vittoria. Tommy Docherty manager scozzese dei red devils lo sapeva e non doveva sbagliare. Centomila. Ian Turner portiere del Southampton lì vede li sente e si esalta. Quando l’orologio di Wembley decide di non scorrere il santo è solo lui. Para tutto, gioca la partita della sua vita e infonde fiducia alla squadra. Qualcuno alla BBC alla vigilia disse che il risultato non poteva essere che in doppia cifra a favore di quelli di Manchester. Oracoli falsi. Quando il bus del Southampton penetrò a fatica fra due ali di tifosi entusiasti nel cuore un tifoso involontariamente venne colpito da un fianco del mezzo e tutti i giocatori si erano preoccupati quando entrarono negli spogliatoi. Peter Rodrigues il capitano tornerà fuori a chiedere informazioni. Lo rassicurano, rientra. Inconfondibile quel gallese dal capello brizzolato, un leggero riporto e gli occhi azzurri sopra baffi da ufficiale di dogana. Mike Channon gli si avvicinò prima della rituale presentazione alle autorità. Channon è un capelluto centrocampista, fin troppo appassionato alle corse di cavalli. Gli dice che lui non avrebbe scommesso un penny sulla vittoria del Southampton, ma di contro afferma anche che chi lo ha fatto non ha sbagliato. Trattasi del consueto ossimoro da ippodromo, da chi non dice mai di aver giocato un brocco 100 contro 1 finché non vince e cerca di dimostrare a tutti la sua competenza. In quella squadra c’era anche “Ossie” Peter Osgood lo stravagante ex Chelsea approdato a Southampton da un paio di stagioni. C’era soprattutto l’autore della rete decisiva. Diagonale secco e preciso. Tagliente come una lama nel burro: Bobby Stokes. Quando la partita si stava incanalando verso il pareggio, che già sarebbe apparso una mezza sorpresa, Jimmy McCalliog intelligente e versatile centrocampista serve Bobby sulla linea di confine e lui infila la palla dietro Alex Stepney, laggiù, nell'angolo più lontano dove le capienti reti di Wembley sembravano inghiottire la sfera bianca come la luna. Il Southampton aveva vinto la sua FA Cup, per un momento tutto si era unito, terra, fiumi, mari e oceani.



sabato 18 ottobre 2025

TANGO AMARANTO




Vi ricordate le riprese televisive durante la finale del Mondiale 1982 fra Italia e Germania Ovest a Madrid? Beh, se aguzzate lo sguardo appare ogni tanto uno striscione appeso alle tribune del Santiago Bernabeu con la scritta Pieve al Toppo. Ecco, lo avevano ricavato dei tifosi dell’Arezzo, non solo entusiasti di essere lì per sperare di assistere al trionfo degli azzurri di Bearzot ma anche già felici di ritrovarsi nella stagione a venire la loro squadra locale in una serie B dai grandi nomi    e dai grandi palcoscenici. L’Arezzo sarebbe sceso in campo a San Siro, all’Olimpico e al Dall'Ara per incrociare il Milan, la Lazio e il Bologna, tutte realtà scudettate e non solo. Insomma, a posteriori  fu una doppia, enorme, soddisfazione. E magari qualcuna di quelle persone più giovani le avrò pure incontrate qualche volta andando a ballare al mitico Tartana, la discoteca accanto alla piscina, un locale poliedrico nel quale trovava posto sia l'adoloscente che il genitore, per la molteplicità delle sale, da quella dedicata al liscio, al valzer, al Tango alla pura Discomusic condita ogni tanto anche da alcuni artisti tipo la Steve Rogers Band con la famosa "Alzati la gonna" fra balli e sballiEppure, Arezzo a guardarla arrivando dalla Superstrada (che poi di "Super" queste strade non ho mai capito cosa hanno) sembra quasi nascondersi nel gargarozzo della Toscana. “Basterebbe Arezzo alla gloria d’Italia” è la citazione di Giosuè Carducci, per un'autentica "città del silenzio" che enuncia il suo dialetto in una sorta di etrusco paludato dell’alto Tevere, un “cuscinetto” di peculiarità fonetiche e lessicali, si direbbe una lingua di transizione, che lo distingue dagli altri dialetti regionali addirittura dotandosi di venature corrotte da un curioso francesismo dovuto a vicissitudini storiche. L'altissimo campanile del Duomo a sezione esagonale, spunta dietro pallidi campi verdi di ulivi e, sempre viste in lontananza, appaiono case bianche con i tetti di color ruggine coperti in autunno da una nebbia assonnata, densa come lo zucchero filato, che piano piano scende, cedendo ai raggi luminosi del sole. Città di Giostra e fieramente ghibellina, con quel cavallino nero rampante e intrepido a fargli da stemma tutelare. Arezzo delle botteghe laboriose dove pare non sia abbia troppo tempo per guardarsi intorno e compiacersi; Arezzo con le cartoline color miele esposte fuori dai negozi. Nella Piazza Grande pendente, da secoli sta, un po’ inclinato come la piazza stessa, un pozzo di pietra, oggi un luogo d’incontro e sfondo per le foto di rito dei turisti. Palazzi scaleni, altezze diverse, edifici robusti sembrano affondare in un morbido lastrico e le stradine del centro, un po’ come i ponti veneziani, salgono e scendono e passeggiando lungo di esse si scopre non solo quello che si trova dietro un angolo ma anche dietro una salita. Fu un peccato sporcare quella maglia con uno sponsor. Parlo dell’Arezzo che vinse la Coppa Italia “semiprof” del 1981 battendo in finale la Ternana, aveva una divisa meravigliosa, completamente amaranto raschiata da tre leggerissimi corridoi bianchi sul cui lato destro con estrema cura e precisone venne cucita la coccarda tricolore del suddetto successo. Ma il calcio frastornato dal processo giudiziario sulle scommesse clandestine stava cambiando pelle e l’apertura alle sponsorizzazioni avrebbe significato entrate fresche, soldi importanti in qualunque categoria dalla Serie A alla terza categoria. L’Arezzo dell'indimenticato presidente Narciso Terziani strinse un accordo con il molino/pastificio "Ponte", sponda destra del Tevere in quel di Ponte San Giovanni, quartiere Pratovecchio provincia di Perugia che in quei primi anni Ottanta aveva raggiunto una notevole fama a livello nazionale. Nato nel 1938, quindici anni dopo la fondazione dell'Arezzo, Terziani da Pieve a Maiano era diventato un imprenditore di successo nel comparto orafo, un "omone" dal carattere forte e dall’animo buono con la passione del calcio, tanto che nell’aprile 1979, quando se ne presentò l’occasione, acquistò l’Arezzo dopo la gestione Geppetti e per prima cosa pagò gli stipendi arretrati ai giocatori, rimettendo in sesto i bilanci societari, che in quel periodo avevano avuto notevoli problemi, instillando inevitabilmente una ventata di entusiasmo ed ambizione. Si capì immediatamente che le cose sarebbero cambiate a breve, c’era, d’altro canto, la volontà di riconquistare la serie cadetta perduta sette anni prima e per farlo coinvolse anche altri imprenditori locali; già nella stagione 79/80, sotto la guida di Pierino Cucchi, fece diversi investimenti portando (e riportando) in amaranto giocatori importanti da Adriano Malisan il biondo numero 10 dalla vaga somiglianza al tedesco Bernd Schuster ed il figliol prodigo Menchino Neri, baffuto centrocampista dai piedi buoni. La squadra disputò una stagione positiva conclusa al sesto posto del girone. Poi nella stagione 1980/81 Terziani decise di dare la svolta tanto attesa e così, dapprima esonerò Cucchi, che non era mai riuscito a legare troppo con lo spogliatoio e fece sedere in panchina l’ex interista Antonio Valentin Angelillo che vincerà quella Coppa Italia di C, primo trofeo di sempre della storia amaranto e, nella stagione successiva, guidò l’Arezzo nella grande cavalcata verso la serie B. Era l’Arezzo dello stadio Comunale imballato da 15000 tifosi entusiasti assiepati nella gradinate sotto la lunga teoria pubblicitaria della Lebole, l’azienda di Castiglion Fibocchi all’epoca grande marchio dell’abbigliamento. Un sogno cucito con i sacrifici. E il colosso della moda era nato proprio dalle mani e dalla mente di una donna aretina, Caterina Bianchi, cui si deve l’intuizione di trasformare il commercio di stoffe e tessuti dei genitori in laboratorio sartoriale capace di intercettare i bisogni di “un'Italia affamata di nuovo”, come diceva lei. L’avvento sulla panchina di Angelillo alla guida degli amaranto significherà passione sfrenata. Un amore di quelli coinvolgenti, in grado di non farti pensare ad altro ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette. La squadra giocava un calcio pratico, soprattutto aveva la capacità di cercarsi, di trovarsi a  memoria, con una diga difensiva che partiva da Pino Pellicanò fra i pali, gestita splendidamente da un leader carismatico come Giuseppe Zandonà che riusciva ad esaltare e dare tranquillità a tutto il reparto, da Emilio Doveri ad Alessandro Zanin, con un centrocampo dove alle geometrie del già citato Malisan si sommavano le corse di Andrea Mangoni, l’estro di Giovanni Botteghi e Menichino Neri oltre a un attacco prolifico composto da Mauro Vittiglio che svolgeva il cosiddetto lavoro sporco e dal bomber implacabile, Tullio Gritti finalizzatore con abilità spesso sorprendenti. Gli aretini, presero a chiamarlo "Tullio Volante". Gritti, milanese amattisimo, fu davvero epicentro di un terremoto di passioni, un centravanti aggressivo d'indole e rapace dell’area di rigore, attaccava ogni pallone esaltandosi nel gioco aereo nonostante non fosse particolarmente alto ma aveva buon tempismo il che lo rendeva pericoloso nei colpi di testa. Grazie alle sue doti Gritti divenne pedina ideale per il gioco di Angelillo che cercava sempre di metterlo in condizione di calciare in porta talvolta da perfetto circense, in acrobazia, tanto che ancora oggi a distanza di oltre quarant'anni Tullio Gritti rappresenta sicuramente il centravanti più forte nella storia del club e il suo trasferimento al Brescia mosse più di un mugugno. Ad ogni modo quel campionato filò liscio per la sua gran parte, la squadra resterà salda in testa alla classifica, vittorie in casa e pareggi in trasferta almeno durante il girone di andata, in perfetta media inglese come si usava dire allora. Certo nel ritorno qualche pari di troppo parve mettere un pochino di sale alla coda del torneo ma poi gli ultimi tre successi consecutivi sistemarono la pratica e assegnando il primo posto finale agli amaranto. Il degno epilogo di una stagione da evidenziatore si ebbe l’ultima e "intima" domenica di maggio in una Arezzo dal cielo terso e dai gerani sui balconi. La settimana precedente la squadra aveva espugnato Latina per 2-0 scortata da 64 pullman di sostenitori, si avete capito bene 64, e al Comunale (oh, ancora senza curva sud) la gente poté programmare la festa. La Paganese, arrivata ad Arezzo già salva e tranquilla della permanenza in cadetteria, si prestò docilmente al ruolo di sparring partner: 4-1.

 






mercoledì 8 ottobre 2025

LA MIA SIENA E QUELLA ROBUR

 


Ogni tanto mi piace veder rispuntare delle foto del primo Siena di cui ho una chiara percezione e un nitido ricordo; per i puristi si dovrebbe dire della “Robur” quella che conobbe il suo stadio attuale negli anni Venti come successe a tante altre società italiane. Quella Siena era bellissima, la Siena che aveva appena visto tornare a vincere Aceto e vide l'ultima grande nevicata. Una città che se ci arrivavi in Treno ti potevi affacciare su Piazzale Rosselli, che all’epoca non assomigliava neanche all’esterno di una stazione ferroviaria, era quasi un luogo intimo, direi persino appartato: una grande aiuola nel mezzo e un'amena collinetta di fronte. Di come l’hanno ridotta oggi sarebbe meglio non farne parola, una disarmonia, rabbuiata e addobbata al profilo del solito cementizio profitto universale. Sulle strade spadroneggiava il “Tramme”, c’era ancora qualcuno di quelli color ramarro degli anni Settanta ma ormai avevano già lasciato spazio a quelli arancioni più moderni e senza marce. La Piazza del Campo di allora, cuore storico di Siena e dei Senesi, folle destino d'ogni Palio, con i suoi ristoranti, i suoi caffè e le tante botteghe “normali” tutt'intorno: dalle scarpe del Mori a quelle del Mezzetti a “Otellino” (in via Duprè) che stava sempre elegantissimo sull’uscio ad aspettare e salutare i clienti, alle mercerie, agli abiti rinomati del Cortecci, gli articoli per la casa, la profumeria del Cubattoli, i giocattoli del Faldoni… boh, insomma, a me sembrava una città molto più accogliente, direi senza dubbio più inclusiva, rispetto a quella attuale, organizzata solamente a misura di turista, zeppa di ristoranti, pizzerie, street food, robe etniche, cinesi, bar senza il gusto della battuta o negozi dei soliti prodotti locali. Ma scherziamo, noi avevamo “La Ghiaccera” col biliardo, la Sala Giochi, il Pulcino e se dovevo farmi i capelli (e due risate sul Bruco che pareva non ci fossero santi o madonne tornasse a vincere) andavo di corsa da Roberto (Ciotolino) in Via dei Rossi sempre che non fosse in Agenzia Ippica a giocare un piazzato a Capannelle. Sostare in Piazza a metà anni Ottanta, significava immergersi nella Siena reale; oggi paradossalmente significa restarne fuori, in una sorta di area protetta tipo Oasi per specie in via di estinzione. Di grandi Supermercati in centro l’unico era l’Upim in Piazza Matteotti detta anche familiarmente Piazza della Posta dove io sono nato alla Clinica Rugani di fronte alla “Favorita” del Nannini. C’erano un sacco di librerie, tutte mete personalmente rovistate da capo a fondo come farebbe un archeologo dentro un cunicolo appena scoperto. Qualcuna addirittura alternativa, io andavo spesso alla “Bassi” rimasta nell’anima tipo un pianto celato e cambiando di netto prodotto viene il nodo alla gola se si ripensa alla mitica “Casa della gomma” in Banchi di Sotto, a Linda e alla sua edicola "lillipuziana" in mezzo al Corso; Oh, attenzione ai teatri (quanto ci manca il Vernacolo Clebbe e Tambus...) e i Cinema, tanti da sembrar d’essere a New York: il “Metropolitan”, il “Moderno” e il piccolo ”Odeon” allocati praticamente dirimpetto tra il Corso e Piazza Tolomei. Fuori Porta Camollia “l’Impero” e naturalmente, cosa vuoi, per assecondare i pruriti dei più giovani o dei militari (con il biglietto ridotto o gratuito) necessitava il "Fiamma" su al Ponte di Romana, senza scordarci del "Pendola" e del "Cineforum" in Piazza dell’Abbadia, sicuramente ambienti adatti ai cultori di pellicole un pochino meno popolari se non da dibattito, alla stregua fantozziana del professor Guidobaldo Maria Riccardelli. Se per caso cercavi l’ultima novità musicale avevi l’imbarazzo della scelta, io per esempio andavo dal “Corsini” dove lavorava la mamma del mio amico Riccardo e qualche cassetta riuscivo a registrarla sottobanco. Colpiva la cura del verde pubblico, i fiori della Lizza, merito dei “potini” del Comune andati, chissà perché, in disuso. C’erano in giro per le lastre i personaggi, tanti, Sello, Spago, il Diabolico, Annina e "aivoglia" quanti altri; c'era il campino di San Prospero e c'erano le Contrade, quelle vere o quantomeno meno contaminate. Si contemplava il concetto di autentico, la spontaneità. E c’era, appunto, il Siena laggiù nella conca del Rastrello, nel bel mezzo della città, incassato fra la Fortezza e San Domenico, uno stadio pulito, minimale, ristretto come il caffè, con la pista d’atletica, una tribuna coperta e una scoperta, la cosiddetta Gradinata, poi arrivò un empirica curva in cemento a mezzaluna, giusto sotto l’enorme Hotel “Jolly” (dove nell'immediato dopoguerra, a lettere cubitali, il Panforte Parenti ci piazzava la sua pubblicità) da cui inizialmente prenderà il nome e dopo né arrivò un’altra, eretta nel decennio successivo, nel lato opposto, nel punto in cui fletteva soltanto un emiciclo erboso e scivoloso e infatti i biglietti per questo settore, acquistabili nel casottino accanto all’enorme statua bronzea di Santa Caterina (uscita dalle celebri Fonderie Marinelli di Firenze), portavano la dicitura “Prato”, difatti, accennavo, risultava leggermente scomodo perché d’inverno, in genere, ti toccava stare in piedi sull’asfalto del parcheggio adiacente, cosa comunque per certi versi "ganza" in quanto assomigliava molto a una stand dello Stamford Bridge del Chelsea prima dell’arrivo dei soldoni russi, ma in fondo vedersi la partita lì costava poco, una bazzecola, e poteva andar bene lo stesso, lontani dal chiasso tambureggiante e affumicato degli Ultras Fighters e dal calendario di Barbanera rivisto in accidenti dai "Fedelissimi", misto di gioventù e gente più stempiata e canuta. Come dimenticarsi del “Murellino” luogo di ritrovo per i tifosi storici accanto alla Tribuna coperta alla cui uscita non c’era mai troppa polizia a scortare i calciatori che in genere tornavano a casa abbracciati alle fidanzate. Insomma, fu dentro quel semplicissimo impianto, che ebbi modo di vedere le prime partite di calcio. La Robur del 1984/85 la guidava in panchina Ferruccio Mazzola un tipo un pò malinconico, nato a Torino, quando il fratello Sandro aveva tre anni e il padre era un simbolo con indosso la maglia granata. Una bomba rischiò subito di porre fine alla sua vita poichè nacque sotto i bombardamenti e forse gli fu subito chiaro che per lui sarebbe stata dura. La separazione dei genitori, una grave malattia, la felicità ritrovata. Accanto a lui in quel campionato di Serie C2 il Siena del Presidente Danilo Nannini, vantava Primo Luigi Galasi allenatore in seconda e Alessandro Fiorini allenatore dei portieri ai quali non faceva mancare i "berci" negli orecchi. Durante la settimana si allenavano un paio di volte sul campo sportivo di Sovicille e spesso diventava un appuntamento imperdibile nei pomeriggi dopo la scuola. Una bella squadra da "Buon Governo" che cuciva un calcio di qualità con giocatori di rispetto, dal portiere Mario Ielpo, al bomber palermitano Santino Nuccio ma anche Paolo Stringara e Fabio Calcaterra (prossimo a passare alla Lazio), Pietro Ghedin e Claudio Desolati a fine carriera e un giovane scalpitante centravanti, Andrea Pistella da Rapolano Terme che risolse una delicata partita contro il Derthona per poi dare un dispiacere allo stesso Siena quando tre anni dopo, vestendo la casacca giallorossa del Poggibonsi, pur non andando a segno mise lo zampino in tutte le reti, paventatosi inafferrabile “Fantomas” per i bianconeri di Mazzola, umiliati con un secco 3-0 nel derby tornato dopo diversi anni d’assenza. Nostalgia Canaglia cantavano Albano e Romina, eh già, eravamo giusto in quegli anni.

giovedì 2 ottobre 2025

ÖSTLICH

 


Molta passione, un pò di polizia, implacabile cemento, nessuno striscione o fumogeno, prezzi popolari. Lento ma inesorabile il football, o Fußball, tornò a stendere la sua ragnatela sulla Germania del dopoguerra. E non c'era cortina che tenesse, il calcio in fondo è come il vento e non poteva avere confini. Diciassette volte si sono scontrate nelle coppe europee squadre della Germania Ovest e della Germania Est, la regione del blocco comunista, segreta per molti aspetti. La guerra dei trent’anni fu rovinosa per la Germania: urla, mortai e spingarde venivano uditi da un capo all'altro del paese. Poi è toccato al Bismark a Guglielmo e a un imbianchino austriaco divenuto cancelliere a Berlino ergersi o affossarsi. Cosa avranno mai da lamentarsi, disse una volta Goethe rivolto ai suoi connazionali. "Hanno me". Finalmente furono i goal o “tor” a diventare protagonisti. Se accantoniamo la rete di Sparwarsser ad Amburgo durante i campionati del mondo 1974 su cui si è sparso persino troppo inchiostro, andrebbero ricordate le rudi e capricciose partite fra cugini. La Germania Est del calcio è un autentico labirinti di nomi ripudiati o ripensati, corporazioni di lavoratori, stadi bui e foto Werra, la storica “Volkskamera” che oltrepassò il muro. Insomma una sorta di tortuoso gioco dell'oca che porta per esempio a Jena tra dolci ondulazioni e patetiche casette dal tetto aguzzo che, qualcuno disse, compensavano il fatto di dover sentire autisti che spiegavano le contraddizioni del sistema capitalistico e la necessità che nella DDR stazionino reparti militari sovietici. A Jena, città famosa per essere stata teatro di un’importantissima battaglia tra l’esercito napoleonico e quello prussiano, giocava Il Fußballclub Carl Zeiss, nato nel 1903 da un’idea di alcuni operai dell’omonima azienda di ottica e strumenti di precisione. Nel 1977 la squadra arriverà fino ai quarti di finale della Coppa UEFA e l’anno successivo al primo turno nell’urna di Zurigo ecco apparire l’ incrocio con l’MSV Duisburg. Allo Ernst-Abbe-Sportfeld Stadion i prezzi dei biglietti venivano segnati su dei botteghini di legno che facevano tanta tenerezza. Ed erano prezzi da stropicciarsi gli occhi, mettere mano alla matita e controllare sulla carta. Nelle rare immagini di repertorio si può leggere e tradurre: posti in piedi marchi 1,10; posti seduti marchi 2,10. Dato che il cambio ufficiale all’epoca era di 240 lire per ogni marco, ne conseguiva che i tagliandi per questo derby fra tedeschi confinanti costerebbero oggi rispettivamente 1 euro e 32 centesimi e 2 euro e 50 centesimi. Cioè, nulla. In totale per la gara di andata furono in 15 mila, niente stendardi o striscioni per non ingenerare equivoci, essendo questi prettamente riservati alle manifestazioni politiche. La tecnologia del tifo, nonostante la formidabile “produktivitat” tedesca escludeva i petardi (probabilmente per motivi militari). Lo stadio quasi mistico, con un unica minuscola tribuna coperte impregnata di socialismo reale, rumorose "signalhorn" (trombette) con pubblico a quattro metri dalle linee bianche, pochi poliziotti in vista (solo qualche cane lupo tenuto al guinzaglio per casi di emergenza), i pali ancora quadrati e di legno, le panchine degli allenatori dietro una porta e non a centrocampo, i giocatori che entrano passando in mezzo alla gente e qualche clandestino arrampicato sui pioppi tutt'attorno, al fresco di un autunno precoce. Maglia gialla su pantaloncini blu priva (ci mancherebbe) di sponsor per il Carl Zeiss e strisce orizzontali biancoblù per il Duisburg marchiate (per prassi) nell'occasione solo dalla dicitura societaria MSV ma in Bundesliga dalla ditta di birra Diebels Alt. Ora ci sarebbe uno stereotipo sui taluni tedeschi dell'Est. Dall’altra parte dicevano che erano pigri, ovviamente non era vero, sarà stato piuttosto che il dialetto sassone non mai avuto una buona reputazione al di fuori della sua regione; eppure, a ben vedere il sassone è l’unica lingua appartenente alla sfera basso tedesca ad avere dignità letteraria. "Il problema che i cittadini occidentali hanno con il nostro dialetto è assurdo" - disse il tecnico del Carl Zeiss Jena Hans Meyer, nativo di Briesen, un paesotto che pareva uscito dalla fantasia dei fratelli Grimm. "La Germania ha così tanti dialetti diversi: perché quelli dell'Est devono sempre essere ridicolizzati? Questo dimostra solo chi ha la mentalità più ristretta". La partita si chiuse a reti inviolate, il Duisburg resistette abilmente anche se i Turingi dettero vita a un vero e proprio spettacolo pirotecnico di conclusioni sprecate. Trascinati da Lutz Lindemann e Gert Brauer, assediarono la porta degli ospiti, sfruttando ogni occasione per impallinare l'agile portiere ospite Gerhard Heinze, alto 1,76 conosciuto a Duisburg come il "Flieger" (pilota). Il momento più memorabile fu al 22esimo minuto della prima frazione quando Thomas Töpfer, smarcato nell'area di rigore calcerà a lato mangiandosi una rete apparsa già fatta. "I nostri giovani attaccanti non sono ancora in grado di rompere gli schemi spiegò un corrucciato Meyer. La prestazione del MSV si è basata sul motto: "Il fine giustifica i mezzi". Puntavano al pareggio. Il tecnico del MSV Rolf Schafstall dirà: "Abbiamo difeso con disciplina e abbiamo raggiunto il nostro obiettivo. Adesso ci siamo garantiti uno stadio Wedau pieno. Ma nulla è ancora deciso!". E infatti l’ordalia finirà al ritorno ai tempi supplementari dove il povero Carl Zeiss uscirà di scena sotto un autentico supplizio di goal: 3-0, Bernard Dietz, Kurt Jara, Norbert Fruck.

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